Felice Piemontese, Il migliore dei mondi

26-05-2006

La poesia e l'etica dell'indicibile, di Giuseppe Montesano

Può la poesia fronteggiare il male e l’orrore nostri contemporanei senza mozzarsi la lingua e senza diventare un giochetto estetizzante? Questa domanda essenziale risuona sotterranea dietro tutte le parole di Il migliore dei mondi, la nuova raccolta di poesie di Felice Piemontese pubblicata da Manni (pagg. 80, euro 10): e con ogni verso e con ogni pausa, Il migliore dei mondi risponde che si può scrivere poesia oggi solo tenendo gli occhi aperti sul male di un mondo che non è affatto il migliore dei mondi possibili: «...mi bendarono di nuovo / e mi domandarono se avevo / un ultimo desiderio... Mi distolse una voce / che diceva ti sei salvato, questa / volta, bastardo, ma la prossima...»: così parla una delle voci che risuonano straziate nelle poesie che Piemontese ha dedicato alle vittime delle torture nel carcere di Abu Ghraib, una voce che si interrompe prima di finire, perché l’orrore non finisce mai, e perché la prossima volta della violenza è già dietro l’angolo: ma quella violenza è detta con estrema discrezione, lasciando che le cose stesse parlino, sospese nell’attimo in cui i versi le registrano. Piemontese maneggia da maestro la tecnica del montage, la costruzione a tasselli dei versi in cui sembra scomparire l’io del poeta e apparire una sorta di trasparente oggettività. Così le poesie su Abu Ghraib pervengono a una sorta di purezza, di etica del non detto: Abu Ghraib è qui e ora ma è anche senza tempo, quella violenza è tutte le violenze, quella fatica di esistere è la fatica di tutti: e l’ansimare segreto delle voci che tentano di dire l’indicibile, diventa la verità del verso in una metrica essenziale, un ritmo sempre in pericolo di essere azzittito dalla prosa. Come in Objects perdus, un poemetto dalla musica inafferrabile dedicato forse ad Artaud, ma dove il «suicidato della società» diventa un everyman, un «ognuno» smarrito in un mondo percorso da allarmi continui ma schiuso sulla possibilità di un’altra vita: spiragli, fessure che si aprono a un possibile respiro, a slittamenti di significato e traslazioni di senso. Lo stesso respiro che risuona nell’omaggio a Debord di Cattivi maestri, un montage dal quale la passione lucida di Piemontese trae come un amuleto post-montaliano, quasi un acuminato fossile che splende della sola verità possibile nel mondo dello spettacolo: la verità detta tra le macerie. Ma tutto Il migliore dei mondi è scritto come in mezzo a un panorama di relitti, segnali di vita nonostante tutto in una waste land divenuta la sola realtà, in cui e da cui Piemontese compita un alfabeto che preveda l’ultima resistenza: «la scelta del / silenzio per non / assecondare il mondo». Come il romanzo Dottore in niente, anche Il migliore dei mondi elabora una forma di lutto per l’ingresso in una realtà senza speranze di vero cambiamento, dove la società dello spettacolo è penetrata nell’interiorità: e proprio da lì parla questa poesia, dall’interno della devastazione, con una sorpresa: le ultime, bellissime poesie di Il migliore dei mondi sono poesie d’amore. Versi d’amor perduto, l’amore che è sempre perduto in un mondo distorto, l’amore che si voleva assoluto, l’amour fou condannato dalla gabbia sociale e che risuona a tratti qui in modo indimenticabile. Tra scorci di vie e apparizioni, fantasmi di poeti e insegne pubblicitarie, clic della memoria e objets trouvés, su un ritmo sghembamente colloquiale e ipnoticamente cullante, le poesie d’amore di Piemontese evocano una sapienza capace di trovare brandelli di felicità nel cuore stesso della perdita, e chiedono: è possibile strappare una goccia di vita vera al silenzio, alla morte, al niente? «Bisogna continuare, non posso continuare, continuo»: in una commossa cadenza beckettiana, il Piemontese di Il migliore dei mondi risponde che è possibile con la poesia, almeno nella poesia, ultimo relitto della bellezza, ultima voce dell’amore nella bassa marea del mondo: «Da ragazzo ho intravisto qualcosa / che non potrò mai raggiungere, ma già allora sapevo / che è impossibile vivere senza...».