Ferdinando Tricarico, La famigliastra

23-01-2014

Il figliastro della storia, di Mimmo Grasso

Ma cosa sono? Giaculatorie-mantra-tiritere? E, poi, a cosa servono e a chi?
Una volta tanto diciamolo con orgoglio: la poesia non serve perché non è serva e il poeta, quando non di corte,  fa sempre - vivaddio - ciò che gli pare e come gli pare. Ed è segno di buona salute della poesia incontrarne uno senza il pannolone della malinconia o l’extrasistole del malumore in ostentazione cefalofora.
 
Dopo aver letto La famigliastra di Ferdinando Tricarico (Manni editori, Lecce 2013) resta nell’orecchio (che è poi l’ultrasuono di tutta la raccolta) il suffisso “astra” che accoglie nella sua gravitazione spregiativa cinquant’anni di letteratura liquidata con atteggiamento supercilioso misto a gioco infantile, un prendere in giro le formulazioni retorico-sociali: la famiglia, in fondo, è pur sempre costruzione storica di un discorso e di relazioni, ha le sue ipotassi, i suoi artifizi formali e comportamentali.  
 
Per “famiglia” si intende qui l’appartenenza biologica o culturale a un gruppo, il radunare una classe di oggetti, di nomi, di esperienze, di linguaggi, tutti con affinità reciproche e tutti ritrovati in una rigatteria in cui i pezzi non hanno etichetta né didascalia e che Tricarico intercetta per un suo albero genealogico di residui, sul quale annota il proprio destino di  “poetastro” che scrive “così come la vita viene” e viene appunto così: senza avvenire (accadimento da marcare e futuro da intravedere), adattata nella società liquida a tutte le forme e formulazioni e perciò stesso altamente paradigmatica, perimetrata da ogni possibile possibilità, con margini fuggenti che pongono (loro, non il poeta) sullo stesso livello di competenza e di hasard il neologismo culto, meditato, e quello nato da un’errata digitazione sulla tastiera.
Tricarico ha orbitato agli esordi nel Gruppo 93 (dunque la generazione di autori nati tra il 53 e il 65, orientato alla commistione dei generi e dei linguaggi, all’utilizzo di formulari metrici e stilistici anche del passato, al montaggio e alla citazione senza virgolette) e con questa raccolta, corredata da un eccellente saggio di Stefano Jossa ed ospitata nella prestigiosa collana “La scrittura e la storia”, diretta da Romano Luperini, esegue e progetta il delirio, elabora a tavolino un acting-out di ascendenza lacaniana per cui il linguaggio diventa psicotico, un fenomeno tanto più allucinatorio quanto più si mostra - si ostenta -  organizzato secondo le presunzioni del registro dell’ordine della realtà piuttosto che secondo quello simbolico.
 
Ci si chiede così se La famigliastra  sia un rinoceronte o un liocorno ma poi si scopre che essa descrive entrambi, che lo stesso autore è teriomorfo, che quegli animali appartengono al nostro bestiario quotidiano. Il lettore spaesato dopo la lettura e che volesse cimentarsi in un lavoro percettivo analogo a quello di Tricarico potrebbe farlo col telecomando annotando durante lo zapping  le prime parole (o mezze parole, o intenzioni di parole) che ascolta o compilando la lista dei titoli dei giornali che sfoglia scoprendosi poi prigioniero di un ronzio da “afasia incrociata” collettiva quasi che il nostro  cervello sia stato programmaticamente deprivato dell’area di Broca.
 
Dopo, sarà sicuro che il proprio quotidiano funziona secondo le modalità evidenziate canzonatoriamente da Tricarico (uso “canzonatorie” con un q.b. di rap e di cantilena o “frottola”). Tipico dell’afasia è il metodo compositivo di La famigliastra che ha precedenti letterari importanti: si finge ad esempio di non riconoscere una parola o di ricorrere a un suo omofono, se ne sostituisce una con un'altra di significato diverso ma della stessa “famiglia” lessicale,  si opta (e si è optati da) una parola completamente diversa da quella che si ha in mente e senza legami apparenti con quella corretta. Se la comunicazione è il senso che se ne trae, in Tricarico essa è speculare al caos del multiscreen, è essa stessa un monitor, un retrovisore  in cui si specchiano la fratrìa e famiglia dei poeti metasemantici a partire, ovviamente, dal Fosco Maraini della “Gnosi delle fanfole”.
 
I testi con parole prive di referente sembrano familiari perché articolate secondo regole sintattiche note, ordinarie, con ritmo riconoscibile,  il che produce, come nel grammelot, lo “strano” effetto per cui siamo convinti di intendere ciò che in realtà non comprendiamo. In altri termini, a proposito di senso, possiamo dire a Tricarico: “Non ho capito ciò che hai detto ma mi è chiaro ciò che vuoi dire, dove vuoi andare a parare”.  
Ovvio che il poeta è agli antipodi di questo modo di percepire, si ascolta dimidiato e indaga la scissione presentandola così come essa appare e, tuffandovisi dentro, la manovra e manipola per dimostrare la frantumazione del comportamento sociale.
 
C’è, allora, una tensione etica che induce Tricarico  a reagire con lo scimmiottamento, la caricatura, la burla, comprese le tirate che rinviano a Totò (“quand’hai vent’anni”, “arrangiatevi”) mettendosi ai bordi dell’ironia patafisica, trattando il proprio  quondam “io”, olim “poietico”, da guarattella senza pubblico e con tanto di pivetta (le storpiature apparenti del linguaggio e le sue fratture), soggetto trasformato in oggetto come solo un greculo partenopeo come Tricarico può fare: a Napoli il “soggetto” non è chi compie un’azione ma chi la subisce, un assoggettato, un figliastro legittimo ma, come tanti di noi, lasciato fuori dall’asse ereditario della storia letteraria, uno che “è figlio, si, ma non proprio”.