Ferdinando Tricarico, La famigliastra

03-03-2014

Se la poesia è famigliastra, di Gaia Martignetti

Definire coraggiosa e sui generis la raccolta poetica dell’ultimo progetto editoriale di Ferdinando Tricarico non sarebbe sbagliato, ma si tralascerebbe una verità indiscutibile della narrazione lirica: “la poesia non è una cosa morta, ma vive di una vita clandestina”. Non scomodiamo Sanguineti a caso. “La famigliastra” di Tricarico è per stessa definizione dell’autore un progetto sperimentale. In cui la lingua è al servizio della narrazione, mutando di forma e significato, diventando mediale, frantumandosi perché frammentaria è la realtà che cerca di ricostruire.
Non è un mero esercizio di stile. Il calco linguistico, la commistione e creazione di un linguaggio a metà tra il dialettale e il social network, uniti ad assonanze quasi onomatopeiche chiariscono da subito l’intento dell’autore: non è un’operazione didascalico citazionistica. Eppure l’aria che si respira nelle pagine della “famigliastra” è proprio questa, riuscendo però a tramutare la poesia non in fine ultimo ma in strumento critico per di svilire, distruggere i modelli di famiglia borghese e poetica contemporanea, al fine di ricostruire una rappresentazione più realistica e fedele. È una ricerca i cui intenti sono dichiarati dall’incipit (prolog in) dell’opera: “Come si canta la famigliastra”, si domanda l’autore, passando per 12 rapporti limite, trovandosi al cospetto di fantasmi cibernetici e riscoperta del divino senso di appartenenza al cosmo.
Ecco perché la famiglia di Tricarico è una famigliastra. È lontana dalla struttura serena e rasserenante che l’immaginario collettivo vorrebbe assegnarle. È imperfetta, psicotica, terrena. Il suo vero volto è clandestino. Tricarico ha abbattuto la staccionata bianca chiamata a contenere ipocrisie e frustrazioni, resistendo al nucleo domestico una dimensione meno idilliaca, ma più reale e umana. Una sorta di “epica epopea“…

"Amo scrivere con un respiro epico. Più che a componimenti poetici siamo dinanzi a un poemetto contemporaneo. C’è un prologo, lo svolgimento, ovviamente con il continuo gioco del linguaggio tecnologico (es. prolog in), con la successione delle varie figure familiari introdotte con il gioco della “leggendina”, facendo credere che ci troviamo di fronte a delle casualità. Dodici figurelle che si dispongono per 3 volte in 12 canti con la successione dell’uno, del due e del tre. Il finale, che qualcuno ha descritto con un forte afflato religioso, per me è molto psichedelico. È una sorta di ritorno al selvaggio."
Parlavamo prima di respiro epico. Cosa si intende esattamente?
È un gioco, quello dell’epica contemporanea. C’è molta autoironia, non c’è il poeta che ha la verità. Il poeta è una voce nel contemporaneo, ma non è la sola voce. È uno spirito di ricerca a muovere il tutto, ma non quella di un poeta in possesso di una verità assoluta.
Le strutture criticate nel libro non sembrano riguardare solo la “famigliastra” del nucleo familiare ma anche la famiglia poetica contemporanea…
Certamente. Nello spirito della poesia sperimentale la lingua è strumento di critica sociale, quindi non è mai disgiunto l’elemento contenutistico dall’elemento linguistico, sono tutt’uno. La famigliastra è sempre una critica alla famiglia biologica e linguistica, è genetica letteraria. Non a caso questo libro piace molto agli psicologi lacaniani. Quando ovviamente parliamo di critica, si intende in senso filosofico stretto: mettere in crisi una serie di opacità.
Quell’astra può non essere esclusivamente un dispregiativo?
Certo. Il suffisso “astra” nel dizionario della lingua italiana indica qualcosa di selvatico, non domestico. Non è solo dispregiativo, le famigliastre sono quelle non addomesticabili. Nel titolo non c’è un mio giudizio così secco tout court di valore sulla famiglia attuale, voglio più affermare che oggi la famiglia non è più domesticamente riconoscibile, è selvatica, è nuova. Tutti di fronte alla realtà siamo costretti a scegliere, ma tengo a precisare che nel mio libro non c’è alcun intento didascalico o giudizio morale.
Recentemente ha avuto la possibilità di testare il parere del pubblico alla presentazione al caffè letterario del Mercadante…cosa le è sembrato?
Un pubblico molto ampio prima di tutto. La reazione mi è molto piaciuta, perché dopo una prima sensazione che la mia sia un’operazione del tutto de costruttiva, in qualche modo distruttiva quindi, quasi a richiamare la morte della famiglia, in realtà tutti si sono resi conto che la critica – anche molto forte, aspra e senza consolazione, col grottesco – alla base ha un bisogno costruttivo. Non è un distruggere fine a se stesso. Questo poteva andar bene negli anni ’70, ma oggi c’è la necessità di capire se esiste un modello alternativo e dove stiamo andando. Il pubblico ha capito che il mio sguardo è privo di moralismi.
Quel “restiamo umani” che chiude l’opera sembra la chiave di lettura principale. È la chiave di volta. È evidente che la famiglia che descrivo è pur sempre umana. Anche la famiglia che descrivo quando affronto il tema del matricidio è umana. Il finale avverte del rischio ulteriore: la virtualizzazione dei rapporti umani. Lo spettro che si evoca, con una serie di linguaggi mediali che aprono anche all’alfabeto del social network, è quello della tecno - famiglia. Se andiamo avanti siamo all’eugenetica, siamo alla famiglia cyborg. È forse il punto in cui più mi espongo. Per me va bene allargare la famiglia, va bene la famiglia gay ma quello che vedo come rischio è la tecno – famiglia. Sarebbe una sostituzione dell’umano. Inoltre quel “restiamo umani” è un ‘esortazione: quella di capire che l’unico nucleo a cui dovremmo appartenere è quella della famiglia umana, del riscoprire il valore della razza umana. Riscoprire la terra madre, il cosmo padre senza tornare a una sorta di antropocentrismo. L’uomo è parte della terra, non il suo centro. È un finale quasi religioso, ma buddhista, spiritualistico.
Parliamo invece delle continue citazioni colte. Troviamo spesso Leopardi, Calvino, Ungaretti e persino un richiamo all’ “on the road” di Kerouac…
A volte anche io mi scopro meravigliato da quante siano. C’è tantissimo Leopardi, Ungaretti con quel “la morte si sconta scrivendo”, è un continuo tributo alla poesia. La scrittura sperimentale usa il citazionismo per una duplice funzione: da un lato per svuotare la parola letteraria così come ci è arrivata, svuotarla della sua sacralità. Dall’altra però vuole ridarle vita, omaggiare i grandi poeti rendendoli umani. E poi c’è ovviamente anche una volontà di diffusione. Se si legge una citazione chiarissima della Ginestra, magari il lettore è spronato ad andare a rileggerla. Il tutto è aiutato anche da una contaminazione fortissima anche con la cultura pop.
Molti poeti e scrittori del ‘900 verranno cancellati dai programmi liceali come prescritto dalla riforma Gelmini, alcuni presenti nelle sue citazioni…
(sussulta) Vengono cancellati gli autori del primo ‘900, quelli del secondo ‘900 non sono neanche mai entrati! Ai miei tempi arrivare all’ermetismo era tutto grasso che cola. I libri che trattavano del secondo ‘900 erano quasi libri clandestini. Bisogna anche ricordare che le storie della letteratura le scrivono i vincitori, io avevo già delle perplessità sul perché alcuni di loro fossero entrati a dispetto di altri. Ma in Italia questo era un punto di forza: c’era un certo fermento attorno a questa questione, su chi dovesse essere annoverato tra i grandi e chi no. È qualcosa che avevamo solo noi. Adesso abbiamo risolto il problema alla fonte. Negli anni, continuando così, sarà la scrittura come forma di comunicazione a essere cancellata.
In favore di cosa?
In favore di altre esperienze sensoriali, sempre limitate. Se si inizia a togliere forme espressive progressivamente si va verso forme cyborg. Il rischio è che la dimensione del piacere tattile della scrittura, del piacere orale, della sonorità della poesia si perderà. Lasciando spazio alla sola vista e abbandonando forme del pensare. È solo la prima tappa. Tra cinque anni cancelleremo l’800, poi il 700 e così via.
Nel 2014 decide si dedicarsi a un progetto editoriale poetico. Una scelta coraggiosa, che risposta sta avendo?
Oggi si pubblicano tantissimi libri e se ne leggono pochissimi. Questa dimensione di mercato è strutturata in modo che un libro si consumi nel giro di una settimana. Quando si fanno operazioni come la mia, fuori mercato, si raggiunge un target più mirato. Mi accorgo che c’è una disponibilità molto forte da parte del pubblico ad ascoltare. Sono libri che hanno un elemento di coraggio, ma hanno una possibilità che altri libri non hanno: quella di essere strumento di condivisione.
La poesia, del resto, può avere un vero mercato oggi?
Anche la poesia più sfacciatamente lirica, anche quella più conforme non vende niente. Anche le collane di Mondadori ed Einaudi mantengono un prestigio e una forza distributiva ma non hanno nessuna valenza. Oggi il poeta non esiste. Non c’è un Pasolini, è una figura inesistente. Con questo non voglio dire che bisogna inseguire figure inesistenti, ma inventarsene una nuova. La forma più nuova è quella più antica: il poeta orale, il menestrello.
Quale consiglio ritiene più valido per un giovane poeta?
Non copiare mai dal compagno di banco. Prima di essere definiti poeti – definirsi poeta è un atto di arroganza spaventoso – bisogna buttar via i modelli. Scrivere e poi confrontare con i grandi poeti. Cercare di esprimersi fuori dai modelli, scoprire – se c’è – la propria identità letteraria. Bisogna scoprire l’originalità della propria lingua, è tutto lì. Alla fine di questo percorso è possibile auto valutarsi, perché oggi nessun sistema è deputato alla proclamazione dei poeti. Per fortuna insieme alla poesia vanno a quel paese anche i critici. Poi ho letto da qualche parte che a questa stessa domanda Valeria Parrella ha risposto che un giovane scrittore deve pubblicare il prima possibile, perché così capisce la sua dimensione sul mercato. Proprio Valeria almeno stavolta ha detto una sciocchezza. Per me bisogna pubblicare il più tardi possibile. Non bisogna avere l’ossessione della pubblicazione, ma l’ossessione di scoprire dentro di sé la propria lingua, poi dopo si pubblica. Io scrivo un libro ogni due anni, perché per scrivere libri ci vuole tempo, cura, ricerca. Oggi siamo più di fronte al culto della personalità quando leggiamo dei libri. Quando ci avviciniamo ad esempio a un Sorrentino o a un Fabio Volo non sappiamo a quale esigenza stiamo rispondendo e quindi quale sia il loro vero valore letterario.