Secoli fra gli ulivi è stato il Salento, di Gianni Custodero
Un Salento tra mito, storia e memoria rivive in Secoli fra gli ulivi di Fernando Manno. Il libro è l’unico dell’autore, salentino di San Cesario di Lecce, vissuto tra Romania , Spagna, Portogallo e Guatemala prima di approdare a Venezia e poi a Roma, dove è morto nel 1959. È , in fondo, una lunga testimonianza d’amore per la sua terra e per la sua gente.
La prima edizione, stampata nel 1958 da Pajano, una storica tipografia di Galatina, non ha avuto molta fortuna: ma ora a scoprire lo scrittore è Antonio Errico, che si protesta l’unico studioso di Manno e ne ripropone le pagine precedute da una sua ampia e appassionata introduzione. «Come tutti i libri unici e definitivi è un libro essenziale. Non c’è una parola di meno né una parola di più di quelle di cui la materia che tratta ha bisogno», sostiene. Lo definisce «libro di memoria della terra, intesa come sistema complessivo e complesso la cui struttura portante è costituita da natura e cultura, mito e storia, umanità e geografia, religione e linguaggio, uomo e paesaggio».
Errico non esita a parlare di recherche du temps perdu, ma non cita Proust anche se si può intravvedere la sua ombra.
A distanza di mezzo secolo, comunque, il libro ha ancora qualcosa da dire: sono pagine da centellinare per cogliere ogni sfumatura. Il salentino vi ritrova un mondo che è il suo e nel quale finisce per riconoscersi. Per chi ha qualche anno di troppo affiorano presenze indimenticate di altre stagioni della cultura leccese e non solo, da Lino Suppressa a Ernesto Alvino e, in anni più recenti, ad Antonio Verri. Proprio sulla “Voce del Sud”, il settimanale di Alvino, Manno ha iniziato il suo viaggio nel cuore e nel profondo della salentinità con l’elzeviro «lu ppòppete», che per Vittorio Bodini «non è soltanto una parola ma addirittura una chiave dell’anima e del costume salentino».
Per Manno «il Salento è di senso orizzontale. Il paesaggio, l’architettura arborea come la spirituale si dispiegano per spazi, per superfici. O per nembi, come gli uliveti. Non ci sono alberi di senso acuto. Il cipresso i salentini lo evitano come albero mesto, perché in noi anche la malinconia è volume grosso, viluppo di lunghi, perduti itinerari, sino al lievito della paura».
Qui «lo spirito di questo barocco è sognante e indefinito. E sarebbe l’antibarocco così lontano dalle chiusure ideologiche ed esoteriche del barocco autentico».
In questa singolare opera unica lampi di poesia in prosa e classici elzeviri si alternano a bozzetti, racconti, richiami alla storia ed antiche storie ma denominatore comune è l’affermazione costante di una identità e di un legame tenace con le radici che affondano nei secoli e nella terra d’Otranto. Non manca un bestiario dedicato alla fauna del cuore, dall’innocente orbettino, «lu scursùne», al millepiedi, dalla civetta, «attica come nostra, di quelli come di questi ulivi», alla capra; ma c’è pure la tarantola e ci sono il «pupiddhru» ed il rigogolo. «Fra la terra e il mare, dove l’Adriatico volge allo Jonio, la preistorica “Centopietre” di Patù, fa da modello ai casolari agresti. Forme nuragiche all’ombra degli oliveti. Natura e forma “stanno”, come noi, dalle origini. E lì, a Lucugnano, sopra la loggia del palazzo avito, protesa sugli uliveti e le pietre come una zattera di sogni, planano fantasie e Meduse di Girolamo Comi»: due frammenti, un capitolo, in tutto sette righe, sono anche un’immagine esemplare firmato Fernando Manno.