Ferrarotti-Fuksas, Polis

29-08-2006

Megalopoli, il sogno tenace dell'architetto, di Nicola Signorile

Un giorno si incontrano un anziano sociologo, anzi il decano dei sociologi d’Italia, Franco Ferrarotti, e un ben più giovane architetto, anzi una delle rare star internazionali dell’architettura con il passaporto italiano, nonostante il cognome baltico: Massimiliano Fuksas. Cosa avranno da dirsi quei due? Quale idea potranno mai condividere? Inaspettatamente le loro opinioni, almeno sul tema della città, sulla crisi della dimensione urbana e sul suo futuro planetario, collimano. Lo dimostra il breve libro pubblicato dall’editore salentino Manni con il titolo Polis e con il significativo sottotitolo Dialogo di sociologia urbana. Frase, questa, che dice subito due cose: primo, tra i due è l’architetto a «scendere» sul terreno del sociologo, ad accettare le sue regole del gioco; secondo, entrambi scelgono il «dialogo», forma tipicamente dialettica dell’argomentare, sebbene proclamino nei loro discorsi l’inadeguatezza della dialettica, il fallimento del «pensiero binario». È vero, però, che i due sono per lo più d’accordo.
La megalopoli come traguardo della città nel nuovo secolo è il tema attualissimo anche della prossima Biennale di Architettura che si inaugura il 10 settembre a Venezia. E anche lì in Laguna il curatore Richard Burdett è spalleggiato da una sociologa, Saskia Sassen, e questo è un altro indizio dell’insufficienza degli specialismi: «È un errore –dice Fuksas– pensare all’architettura ancora come ad una disciplina autonoma», perché essa «è diventata un’arte contaminata, che dipende completamente da altri fattori». Addirittura: «Credo che una buona architettura sia quella che diventa altro da sé». Elegante via d’uscita, di fronte all’affermazione perentoria di Ferrarotti: «Oggi l’architettura –nel suo svilupparsi e nel suo non svilupparsi– crea le condizioni per questioni sociali terribili, quasi non risolvibili».
Il pensiero corre subito alle periferie, che delle metropoli industriali sono state il corpo vitale e la deformità ineludibile mentre delle città postindustriali si potrebbero dire la massa tumorale, l’essenza parassitaria e divoratrice. Ferrarotti ne confeziona una metafora suggestiva ed efficace: «Le periferie sono come sogni all’alba, trascurabile problema di funzionamento dei grandi aggregati urbani, ma sono sogni tenaci, che restano, più reali della realtà».
La bellezza dell’ambiente in cui donne e uomini e bambini sono chiamati a vivere in milioni sembra un traguardo scomparso dall’orizzonte di chi costruisce le città. «Il compito dell’architettura –sostiene Fuksas– è scegliere come far vivere le persone. Rispetto a questo obiettivo l’architettura contemporanea, l’urbanistica multiculturale, la città democratica ha fallito. […] Certo l’architetto da solo può ben poco. Sono le scelte della cultura politica a segnare lo stile del tempo». E intanto «l’architetto di pregio tende ad autoeliminarsi, ad occuparsi solo di cose marginali», belle magari come i musei, ma non altrettanto cogenti come la case, le abitazioni, non solo quelle popolari.
Ma Ferrarotti non è altrettanto pessimista. Ricordando l’esperienza vissuta con Adriano Olivetti, che «sentiva cantare le pietre», afferma: «Io non ho perso la fiducia nel grande architetto. La preoccupazione è nell’atteggiamento complessivo […] ma soprattutto manca una nuova idea di città».
E tuttavia, anche in questa assenza di visioni strategiche, le città si trasformano, comunque: «La riconversione è in marcia –avverte Ferrarotti–. La deglomerazione sta facendo le prime prove e il suo ritmo di attuazione sarà sempre più rapido […]. Tutto questo significa dover resistere a committenti che hanno fretta», e che travolgono con l’investimento privato le amministrazioni pubbliche, rivendicando deroghe alle norme urbanistiche. È vero che «Il pubblico non è lo Stato, con la sua burocrazia e la selva di leggi e leggine –osserva il sociologo–. Pubblico è il sociale». Ma le imprese non contrattano con le popolazioni, trattano con i sindaci le trasformazioni del territorio.
All’inizio del «dialogo» Ferrarotti mette sul tappeto tutta la complessità dei problemi e illustra il fenomeno che si apre sotto i suoi occhi: se la città non può essere più «rappresentata e progettata seguendo il concetto tradizonale di città murata», come ci appare? «Dobbiamo cominciare –risponde– a concepire la città come un’idea che trascende se stessa, non più contrapposta alla campagna ma in un continuum urbano-rurale». Rurbanization la chiamano –con un neologismo in verità alquanto sgraziato– gli esperti che studiano la costa orientale degli USA, dal New England fino a Washington, non potendo più distinguere tra centro abitato e periferia. È in questo scenario che Ferrarotti riconosce i contorni di una nuova tendenza che egli chiama «deglomerazione», il contrario della concentrazione urbana, ma che sembra essere altra cosa rispetto alla Sprawltown teorizzata da Ingersoll: «le migrazioni e i travasi di popolazione tra i vari comparti di questa città “polverizzata”su scala regionale saranno frequenti». E sarà un fenomeno di portata generale, non circoscritto ad alcune regioni.
Come rispondere alla «deglomerazione»? Per Ferrarotti si tratta di «portare il centro in periferia. Non accettare la città spezzata in città e anti-città; bisogna costruire un tessuto urbano policentrico».
E Fuksas questa idea già la vede: una città per cinquanta milioni di abitanti. Bisogna ora «pensare in grande la realtà del mondo nuovo che abbiamo creato», dice l’architetto. E perciò «serve ragionare non intorno all’oggetto architettonico ma ad un’idea di megastruttura, che io chiamo “gentile”, al di là della città stessa».
E per chi ha perduto la fiducia nelle risorse della ragione dialettica, progettare la megalopoli significherà «capire fino a che punto sia possibile spostare il limite di gestione del caos».