Ferrarotti - Fuksas, Polis

07-09-2006

Megalopoli, il futuro è salire non uscire, di Nicola Signorile

Alle megalopoli non c'è alternativa. Le città crescono e nessuno può fermarle. Almeno, proviamo a viverci meglio. Un secolo fa solo il 10 % dell'umanità abitava in un centro urbano, oggi uno su due, fra cinquant'anni si prevede che il 75 % degli uomini e delle donne del pianeta avrà un indirizzo in città. E allo spazio vitale del futuro è dedicata la X mostra internazionale d'Architettura della Biennale di Venezia che si inaugura ufficialmente domenica prossima. Ma quale città? Di che dimensioni? Metropoli da dieci milioni di abitanti, megalopoli in cui brulicheranno 20, 30 milioni di anime? In un recente libro a quattro mani con il sociologo Franco Ferrarotti (Polis, Manni ed.) l'architetto Massimiliano Fuksas spinge fino a 50 milioni di abitanti la dimensione della megalopoli per la quale valga la pena mettersi a studiare, progettare. Un filo sottile lega la Biennale d'Architettura che nel 2000 curò proprio Fuksas, con un appello alla responsabilità sociale e politica del progetto sotto lo slogan «Less aestethic, more ethic», e questa edizione d'oggi curata da Richard Burdett e intitolata semplicemente «Città. Architettura e società». In mezzo, è vero, ci sono state le Biennali delle star, dei grandi progetti che esaltavano la ricerca formale, lo stupore di geometrie mai viste, in una dichiarata indifferenza verso i luoghi e soprattutto verso i problemi della gente che nella sua stragrande maggioranza non abita nei musei parabolici di Frank Gehry e di Zaha Hadid. «La cosa straordinaria delle città, ma anche il problema maggiore del nuovo secolo - dice Richard Rogers, che domenica riceverà in Laguna il premio alla carriera - è la voglia di viverci delle persone». Una voglia che forse non spiega la rivolta delle periferie ed è incredibile se guardiamo alle condizioni di vita delle attuali metropoli, condizioni se possibile peggiori di quelle che si sopportavano nella Manchester ottocentesca raccontata da Friederich Engels. Ma è proprio da qui, dalla capacità di reagire delle città, che prende le mosse la ricerca di Richard Burdett. Sarà che il ruolo di consulente di Ken il Rosso, il sindaco laburista di Londra, gli impedisce di indossare i panni dell'apocalittico, sarà che per mestiere insegna Architettura agli economisti della London School, sarà che frequenta sociologi come l'americana Sasskia Sassen (autrice di dieci anni fa di un saggio apparso in Italia col titolo Città nell'economia globale), fatto è che Burdett s'è rimboccato le maniche ed è andato a vedere che succede in quelle metropoli che tra vent'anni saranno megalopoli. Città del Messico, Caracas, Mombai, New York, Shanghai, Tokyo, Los Angeles, Johannesburg, il Cairo, e - in Europa - Londra, Berlino, Barcellona? Le scelte sono fatte per discuterle. Perché manca Parigi? Declino irrimediabile? E Mosca? Incertezze del mercato finanziario e immobiliare? Milano ci entra per un soffio, nel catalogo di Burdett, e solo grazie all'idea che insieme a Torino già prefigura la meta-città del domani, costretta al gemellaggio da quei 35 milioni di veicoli che in un anno viaggiano da città a città. Saranno i trasporti a decidere del benessere delle megalopoli: lo dimostrano i programmi di città come Tokyo, che si pone l'obiettivo di ridurre il traffico privato benché l'80% degli abitanti già oggi si muova con mezzi pubblici. A Londra l'imposizione di salatissime tasse sulle automobili ha prodotto in tre anni la diminuzione del 20% del traffico privato e ha raddoppiato l'uso di Bus e metro. Istanbul punta molto su «Marmarail», un passante ferroviario per collegare le due sponde del Bosforo, Caracas conta sul successo di «Transmilenio», linea di autobus ad alta capacità su corsie preferenziali. Ma le infrastrutture generano anche degrado. Per questo San Paolo in Brasile ha in cantiere la rigenerazione con gallerie commerciali e un parco lineare del «Minhocão», il cavalcavia Costa e Silva dove transitano ogni giorno 80mila veicoli. Se la mobilità è un problema comune, altri malanni segnano la differenza: da una parte le città dei paesi industrializzati, dall'altra quelli dell'ex Terzo mondo. Le prime, come New York, Londra, Berlino, Milano, Barcellona, sono alle prese con la riconversione delle aree ex industriali e dei vuoti urbani. Tra questi segnaliamo il progetto di Eric Owen Moss «Culver City» a Los Angeles. Le città «in via di sviluppo» sono invece impegnate a gestire l'abusivismo. In questo caso, i progetti più interessanti sono i meno eclatanti. Come quelli di Caracas dove la strategia consiste nell'adeguamento anziché la demolizione dei sobborghi abusivi dove vive il 40% della popolazione, un adeguamento che passa per la costruzione di centri sociali e palestre, come il «Gimnasio Vertical» progettato da Tink Tank, Brillenbourg e Klumpner. Anche a Bogotà la scelta è di non demolire le costruzioni abusive che sorgono ai piedi dei grattacieli, ma di tentare un governo dell'esistente. Al Cairo, dove 100mila persone vivono abusivamente nel cimitero monumentale, la «città dei morti», risponde con i parchi come quello di 30 ettari finanziato dalla Fondazione Aga Kahn. In questo panorama di lodevoli intenzioni, grande assente è il disegno urbano, l'idea cioè che la forma della città possa essere progettata, nella sua complessità. Gli interventi di rigenerazione urbana appaiono in tutta la loro solitudine, indifferenti al contesto e alla storia urbana. Fa eccezione - ma non è una novità - Barcellona con il suo piano di edilizia economica: 100mila abitazioni nei prossimi 10 anni. Un piano in cui emergono, non a caso le firme di architetti come Ferratér, Bendito, Valls e anche l'inglese David Chipperfield. Il piani urbanistici si confrontano con la tessitura ortogonale della città ottocentesca, con i tipici, grandi isolati ottagonali. E questa sensibilità storica ci avverte che siamo ancora in Europa. Ma che siano del primo o del terzo o del? settimo mondo, per tutte le megalopoli la ricetta è quella che campeggia su una parete della sezione dedicata a Londra: «Going up, not up», salire anziché uscire. Addensare le città, contrastare il consumo del suolo per salvaguardare gli spazi aperti: un bene comune che spetta a chi amministra le città difendere dall'egoismo del consumo privato. «Un buon governo - dice Richard Burdett - può creare buone città, a prescindere alle loro dimensioni. Solo gli amministratori pubblici sono in grado di dare avvio a un nuovo piano d'azione mettendo al lavoro architetti e urbanisti in un nuovo patto di sviluppo delle città».