Ferie con Volponi nella città ideale, di Massimo Raffaelli
Il grande romanziere di Corporale e Le mosche del capitale nasce a pochi metri di distanza (in un'altra casa sulle mura, davanti al Torrione di san Polo) ma in via degli Orti ritorna, a cadenza, per tutta la vita: lì hanno abitato i suoi genitori e tuttora, larga parte dell'anno, vi risiede sua moglie Giovina Jannello, l'ex assistente di Adriano Olivetti che Volponi sposa a Ivrea nel '59 quando è già un manager industriale di vertice, responsabile dei servizi sociali della stessa Olivetti. Oggi da via degli Orti non si riesce a vedere, però a poche centinaia di metri, vicino alla piccola stazione ferroviaria, c'è il sito archeologico dell'antica fornace di mattoni che impiantarono suo nonno come suo padre Arturo e da cui, evidentemente, lo scrittore eredita l'amore per il lavoro (inteso come etica ma anche civiltà da ordinare e programmare dal basso) che tradurrà nei romanzi alla stregua di un fermento politico e di una sussultante utopia.
Perché via degli Orti non è mai per Volponi semplicemente la casa delle vacanze o il buen retiro di un singolarissimo dirigente industriale (prima alla Olivetti, poi alla Fiat, alla Fondazione Agnelli, alla FinArte, alla Rai) che si trovi nel frattempo ad essere il compagno di strada di Pier Paolo Pasolini e di Elsa Morante. Viceversa via degli Orti, letteralmente a picco sull'antica fornace, è l'antipode degli spazi metropolitani (Ivrea, Torino, Milano, per un breve periodo anche Londra) dove il manager ha dovuto allontanarsi e dunque rappresenta un polo non meno necessario, quasi una radice sanguinante e insepolta, della sua immaginazione letteraria. Per lui è il mondo nella perfezione incantata, immobile e persino anacronistica, ma è insieme l'altra faccia di un altrove in cui invece si muove, dirompente e frenetica, la civiltà delle macchine.
Nell'ultimo scorcio del ’900 (fra l'esordio di Memoriale, 1962, e il romanzo di formazione dal titolo programmatico La strada per Roma, 1991) la sua narrativa dà conto di un conflitto capitale da cui è possibile dedurre tutte le contraddizioni della storia italiana recente o, come disse uno storico, del Paese Mancato: il conflitto tra Centro e Periferia, Città e Provincia, tra un antico universo rurale-artigianale e un troppo recente agglomerato industriale, infine tra il mondo dell'Economia capitalista e quello della Finanza virtuale, cioè tra una vera Polis e un Villaggio Globale oramai sgangherato e fatiscente.
Così, da via degli Orti alle altre residenze elettive, Volponi vive in prima persona la stessa e lacerante dinamica. Egli è un manager stanziale e uno scrittore pendolare, o viceversa: a Milano o Torino lavora e si propone di scrivere, a Urbino torna di continuo per scrivere e per accusarsi subito di venire meno al proprio impegno. In una poesia giovanile definisce non a caso la città natale una «città nemica» e perciò ambivalente, complice e oscuramente ostile. In un libro recentissimo, Volponi personaggio di romanzo (Manni), che gli hanno dedicato il suo primo studioso, Gian Carlo Ferretti, e il curatore delle opere complete da Einaudi, Emanuele Zinato, fra gli altri inediti si legge un appunto del 1980 che non potrebbe essere più chiaro: «Lascio Milano rinfrancato e vado veloce in viaggio […]. Arrivo subito a casa mia, vicinissima alla porta principale d'ingresso, saluto mia madre e di corsa mi avvio verso la piazza centrale, quella continuamente popolata e frequentata. […]Lì sono immediatamente dentro e per intero nella verità di Urbino, come con tutto il passato e la memoria dentro la sua storia e cultura, leggenda e cronaca, sono riconosciuto e disteso e anche subito percorso dai crucci e dalle indulgenze, dalle velleità come dai desideri imposti e infusi dai limiti riconosciuti della provincia e da quelli tipici della prepotenze e dell'incantamento di Urbino. Sopravviene a distrarmi la facilità di camminare, il piacere di tante complicità accoglienti, la sottile perversione della congiura degli autoappagamenti e delle cerimonie rituali».
Qui sono comprese le puntata al Circolo per la partita a carte e le accanite discussioni sotto i portici con i suoi compagni del Pci ma anche le conversazioni con i vecchi amici, tra cui i grandi incisori urbinati come Carlo Ceci e Renato Bruscaglia, i letterati come Gualtiero De Santi e naturalmente Ercolino Bellucci e Umberto Piersanti, il poeta delle Cesane che ha un carattere non meno sulfureo del suo.
Dell'incantesimo di Urbino sono parte integrante, tuttavia, le opere custodite nelle chiese e a Palazzo Ducale che ogni volta lo scrittore visita come per irrorarsi: non solo l'anonimo della tavola intitolata La Città Ideale, o Piero della Francesca o Raffaello, ma su tutti Federico Barocci, i cui impasti liquidi, sensitivi e sconvolti sembrano anticipare quelli della sua scrittura. La quale si produce d'impeto e sempre sotto sforzo, nel corso di sedute brevi e squassanti. Volponi, lì, non può dettare come altrove gli capita, in ufficio e fuori orario; nella cucina a pianoterra di casa sua, poco oltre l'ingresso, deve scrivere a mano su carta intestata e taccuini di fortuna. Il suo scrittoio è il meno pretenzioso, un piccolo e rotondo tavolo di marmo che può utilizzare solo dopo averlo sgomberato dagli oggetti domestici. Fatto sta che, con almeno la metà delle carte volponiane, in via degli Orti quel tavolo c'è ancora.