Una duplicità di percorsi, di Raffaele Cavalluzzi
Tre interessanti inediti di Paolo Volponi (alcuni appunti del 1972, pagine di taccuino del 1980 e una risposta non inviata a Fortini del 1973) a cui si aggiungono brani di un’intervista del 1975 vengono pubblicati e introdotti da Gian Carlo Ferretti e Emanuele Zinato, e perciò da una doppia lettura: la prima ben calibratamente storico-ideologica e l’altra di grande acume formale.
Ferretti individua nei passaggi studiati alcuni momenti significativi della carriera di Volponi intellettuale impegnato nel dopoguerra come manager socio-culturale in due grandi realtà industriali del nostro Paese, l’Olivetti e la Fiat, e poi il modo come lo scrittore si predispone al più diretto impegno politico come consigliere d’amministrazione della Rai per conto del Pci e quindi come senatore indipendente nel gruppo comunista negli anni Ottanta. Per ciò che riguarda l’esperienza di fabbrica dalla plancia di comando di due emblematici, e diversi, soggetti del capitalismo italiano, il ruolo quasi sveviano sceltosi nella società civile dal creatore di figure, nei suoi romanzi, in qualche misura eredi della sveviana inettitudine, si chiude, com’è noto, con il fallimento. E tuttavia il “personaggio” Volponi appare in questa singolare sequenza contraddittoriamente vitale appunto come attore di un’opera romanzesca: un comunista dell’utopia democratica, che è stato tuttavia quanti mai reale nel panorama di non sempre lineari percorsi dell’engagement dei nostri intellettuali. Non a caso, in una delle sue uscite pubbliche (il 18 dicembre del ’93 in occasione del primo premio Raffaello conferitogli dalla Provincia della sua Urbino) di sé lo scrittore ebbe a dire con la sua lucida, commossa foga: «Gli urbinati,che non sono pochi qui stasera, s’interrogano spesso su di me. Ma come ho fatto? Che scrittore è questo? Se non era bravo a scuola, se fuggiva per le strade, per i campi, se non si applicava, come ha fato a diventare uno scrittore? Beh, diventare scrittore – è la carica dell’emozione, è la carica della voglia di capire, di intervenire, anche di rompere, di dissacrare, di rinnovare, di provarsi da sé contro le varie cose della società, entrare addirittura in contatto personale anche con i sentimenti della gente, con i valori che animano o opprimono o castigano i non valori che castigano la società» (“Belfagor” nov. 1994, p. 703, a cura di Livio Sichirollo).
Dal suo canto Emanuele Zinato coglie il personaggio-Volponi nelle procedure stesse della sua scrittura più significativa nella fase della maturità ultima (quella delle Mosche del capitale), e nel corpo a corpo che lo scrittore stabilisce con le proiezioni di sé medesimo – nel racconto in prima o in terza persona che sia, prendendo in esame anche gli altri suoi “memoriali” – e nella tormentata linea evolutiva dall’autobiografia alla metabiografia.
D’altronde, la contraddizione fondamentale in Paolo Volponi, sin dalla prima maniera, sta proprio tra il lucido, estremo progetto di razionalità che lo mette alla prova, e mette alla prova i drammi delle sue creature poetiche ambiguamente collocati tra realismo e visionarismo. In questa direzione valga il valore intensamente turbato sia della vicenda di Albino Saluggia nel romanzo d’esordio, sia del tragico nichilismo che chiude, alla fine, la storia di Anteo Crocioni, protagonista anarchico della Macchina mondiale. E, se si considera la singolare traiettoria di quella che, come romanzo di formazione, doveva essere un’opera prima ed è stata poi pubblicata per ultima, La strada per Roma, la divaricazione nei riscontri autobiografici, specie quelli di natura ideologica, subisce un netto rovesciamento di ruoli, teso a contaminare e a diventare un vero e proprio spiazzamento di punti di vista. Infatti, c’è da chiedersi, fino a che punto il giovane protagonista del romanzo Guido e la sua spalla antagonista, l’amico della prima giovinezza, il proletario Ettore, corrispondono a un meditato gioco delle parti che decide del loro destino? E soprattutto Guido, il cui progetto di liberale modernizzazione costituisce forse l’incunabolo della Repubblica ideale immaginata al di là delle viscere della provinciale e magica Urbino, fino a che punto – per esempio nelle ossessioni sessuali e nelle tempeste del profondo inconscio – non corrisponde a una irrimediabilmente dimidiata (il romanzo comincia a essere progettato ben trent’anni prima della su pubblicazione nel 1991) coscienza di sé dello scrittore medesimo?
Per ciò che riguarda il rapporto con se stesso nella costruzione di una prospettiva di lettura della confusa realtà della società neocapitalistica, nella trasformazione che ciò comporta, radicale e dolorosa, della dicotomia tra radici del privato (la famiglia, la provincia, la campagna) e sogno della ragione utopica secondo nuove regole della scienza umanizzata (la città, la fabbrica, il progetto della socializzazione), Volponi del resto registra una duplicità di percorsi dell’esperienza umana mai riconducibili a un unum di trascendimento. Così come avviene nella natura e nella scienza – nell’ordine umano che soggioga la natura lasciando durature tracce nel paesaggio, nell’archeologia geografica che ci contiene (si veda la raccolta di poesie Con testo a fronte) -, la reciproca ottusità degli ordini di fattori può essere solo detta per via del violento, eccessivo stridere delle contraddizioni: irrisolvibili, indomabili, vicendevolmente irredimibili. Perciò, anche nel Volponi post-moderno delle Mosche del capitale, la visionarietà più accanitamente parodica e più magmatica ha la meglio sul progetto illuministico: e questo tuttavia resta la bandiera sgualcita ma mai ammainata di un furibondo sogno di eversione e di cambiamento. Non importa se a continuare a vessarlo c’era qualcosa di irrisolto in quello spirito fino in fondo inquieto: un’angustia che tra l’altro vedeva convivere un quasi religioso attaccamento al passato e il fiero odio di esso, anelante al ragionevole, mondano riscatto della felicità.
In qualche modo si tratta, così, di una contraddizione che caratterizza in maniera assai vicina il tragico percorso umano e intellettuale dello scrittore che, tutto sommato, fu a lui più vicino fra i contemporanei: Pier Paolo Pasolini. Ne è prova la corrispondenza indirizzata al poeta de Le ceneri di Gramsci e uscita in primavera a cura di Daniele Fioretti. Li accomuna una certa propensione nichilistica già al di là della stagione del neorealismo, e lo sfondamento di una personale filosofia del nulla verso il recupero ontologico dell’entusiasmo libertario. Per questo, se si considera in particolare l’itinerario del Volponi poeta, nella sua maturità – come avviene nella vicenda pasoliniana – da un’iniziale propensione post-ermetica e intimistica si passa alla narratività più discorsiva nella misura del poemetto, pur con la differenza che Pasolini resta legato, nella sostanza delle sue raccolte post-giovanili, a una qualche inclinazione estetizzante dell’originaria cifra simbolistica e mallarmeana, e il verso di Volponi, invece, è sempre più trascinato da una più tesa violenza espressionistica. In altre parole, per il poeta marchigiano la forma dell’impoeticità appare molto di più che nell’altro un obbligo di natura piuttosto che una scelta stilistica. D’altronde, le sue lettere a quello che egli considera significativamente una sorta di maestro e fratello maggiore rivelano – a proposito appunto della sperimentazione formale avviata dal tempo di “Officina” e culminata nella svolta di Corporale nel cuore degli anni Settanta (fatalmente coincidenti con la scomparsa del destinatario) – un’iniziale incomprensione di Pasolini per la forma singolarmente inestetica che va assumendo la scrittura volponiana. E documentano – a parte la preziosa variantistica testuale che ci aiutano a ricostruire -, in modo indiretto se ci si riferisce all’ultima fase dello scrittore emiliano-friulano, quella di Petrolio, una sorta di rovesciamento di ruoli: Pasolini col suo ultimo romanzo raggiunge risultati di sapore post-moderno, in ciò preceduto proprio dal romanzo dell’amico che in un primo momento aveva mostrato, in relazione a siffatti caratteri, di non saper adeguatamente apprezzare.
Sul piano tuttavia dell’impegno civile per cui Pasolini in quella stessa fase, prima nella battaglia delle idee e poi, al culmine con la sua morte, diventava un’icona di straordinaria, pubblica suggestione, Volponi colse per intero il senso tragico, per la società italiana, della sua fine. Tempo dopo, infatti, l’autore che chiudeva la sua carriera letteraria con Le mosche del capitale, commentando una tristemente nota fotografia del cadavere straziato di Pasolini, scrive quella che si può considerare la sua ultima lettera aperta al mentore e all’amico (l’epistolario si era interrotto circa due mesi prima del delitto dello scalo di Ostia) nella quale mette direttamente sotto accusa, attraverso un maltrattenuto riso “furbesco” e “canagliesco” di un poliziotto che, nella foto, guardava quello scempio, il cinismo e l’ipocrisia – ovvero la falsità dello Stato democratico – che l’atteggiamento della società nazionale lasciava nel suo insieme trapelare circa “la normalità di quella fine, inevitabile siccome giusta”. D’altro canto nei versi di Pasolini da cinque anni è morto (contenuta in Con testo a fronte) così aveva dato l’addio a Pier Paolo: Caro Pier Paolo ancora non ho tutta la pienezza / della tua mancanza, anche se cerco... ma solo crepe / arrivo a tastare di disastri, di una lurida fortezza / tutt’intorno... e solo l’innocenza del pepe / e del sale mi ravviva di una globale, demente ebbrezza, / di un solo sentimento di purezza / del pepe del sale e di ogni altra spezia / tritata... tutte le guardo e anche solo un’inezia / del loro valore mi equivale e mi screzia / la mente.