dimenticati in mezzo alla parete.
La poesia di Franca Mancinelli (nata nel 1981) è lieve, ma pungente come certe piante selvatiche, con un senso tattile delle cose. Segni particolari del suo carattere: Franca è una grande osservatrice, sa indagare ogni particolare per coglierne il segreto. Ha scritto il libro Mala kruna (Manni editore).
Un percorso nel quotidiano che racconta le lotte domestiche, le fatiche di chi lavora e rientra nel “vagone di seconda in quante città / sovraffollate, la gente in piedi scossa / dalla stanchezza…” (p.53). Ma anche un cammino spirituale, a tratti religioso, dove “ogni passo è una stazione, / come la marea sale nel buio” (p.49).
Nelle prime due sezioni una voce bambina ricorda com’era “all’inizio della vita” (p. 28), quasi “una favola da raccontare” (p. 26), con la meraviglia, le zuffe, le attese, gli abbracci, il bene e il male vissuti nella casa: “è tornata la mamma e la gioia / parla forte / (…) / è un gatto per me?” (p.16). Qui la parola è come racchiusa, nell’attesa di maturare per poi alzare il tono verso la conclusione; parla “all’inizio del corpo” (p.21), con tono delicato sussurra: “Vieni negli anni muti, mani premute / sulle labbra” (p. 26), o ancora “la bolla di vita tenue / il sorriso chiuso nella pelle” (p.27). S’impone un linguaggio dei gesti, dell’istinto, quando “sono le mani a chiamarsi: / una lingua preistorica” (p.24); e sono, questi primi versi, popolati soprattutto da elementi naturali: mare - acqua - terra - animali - alberi - radici – fiori, in una fusione ancestrale tra corpo e natura, come vuole il titolo della seconda sezione Il mare nelle tempie.
Dentro queste immagini, però, qualcosa stride, s’incrina per un indizio ostile su ciò che riserva l’esistenza: “Non farti accorgere, non dirmelo / che la fuga s’è chiusa in un cerchio, / non darmi questo mondo fermo…” (p.14). Ecco il momento dissonante tra l’io e la realtà, l’attimo in cui si avverte la vertigine, o si precipita: “come dondola il mondo e le cose / di nuovo tremano, anch’io / sarò nel buio” (p.14).
Con movimento completo e circolare, “un giro intero ai pali” dell’altalena (p.37), la fanciulla viene proiettata nella vita adulta. E’ una tappa obbligata di quel viaggio, il varco cruciale che porta a un’altra età, l’adolescenza, che si manifesta come un frangente: “l’onda entrava nel costume verde. / Quando m’alzai sapevo / cos’accade a una donna” (p.22).
In questo passaggio dall’infanzia all’età matura non è difficile trovare un parallelo col dipinto di Gustav Klimt, Le tre età della donna (1905): un percorso nelle fasi decisive della vita femminile, interpretato come un rinnovamento, anche se nel quadro questo processo va letto in modo inverso (dalla vecchiaia si passa all’infanzia).
Viaggiare – come metafora del processo di maturazione - significa anche perdere piccole parti di sé, sbriciolandosi verso una disintegrazione che si ripete nelle poesie della terza sezione: “sono seduta in briciole” (p.44), “è la scure che ci abbatte” (p.45), “l’amore in petali sul pavimento”, “mentre mi scucio e frano” (p.38), “da piccole macerie / d’anno in anno t’ho raccolto” (p.34). Il soggetto si frantuma, ma contemporaneamente si riorganizza in una geografia del corpo evidente nelle molteplici tracce: dito - lingua - costole - bocca - piedi - gambe - voce - corpo - pollice, tutti compresi in un unico testo; e ancora: piaga - saliva - petto - occhi - sangue, in un altro. Per arrivare al titolo, centrale, della terza sezione: Nel treno del mio sangue, dove trasporto, dolore, organismo si fondono.
La scrittura di Mancinelli ha il pregio di avvicinare gli estremi, quando le “costellazioni” convivono con una “busta della spesa”, o quando si passa dai “non generati” al momento della nascita, col “grido che ha rotto ora le acque” (p.30). Questa percezione è rafforzata da alcuni elementi strutturali del libro: spesso il titolo delle sezioni risuona come un’eco di qualcosa già udito altrove, di espressioni ripetute nelle pagine precedenti (o successive). Così l’opera è suddivisa da momenti / titoli che sono di apertura ma anche di chiusura, in un movimento tutto circolare: “scandite al buio le parole sono un cerchio” (p.26). E allora, la morte si ricongiunge con la vita in modo esplicito e straordinario in questi versi: “L’obitorio è un lago calmo: le barche / ovali come il seme di una donna, / la carne dove dorme sempre un figlio.” (p.52)
24/05/08 - Liberal
Una piccola corona di spine, di Loretto Rafanelli
Di questa opera prima di Franca Mancinelli, conviene partire dal titolo: Mala kruna (Manni editore, 64 pagine, 8,00 euro), spiegando che significa: piccola corona di spine. Una piccola corona che ricorda un presagio, un mistero, un mare diverso che «fermava il sangue sotto le unghie» e non faceva «partire le barche». Spine che accompagnano un’esistenza, una giovane esistenza (1981), quella della poetessa che racconta nel suo esile libro, le fasi di una vita, di un amore, di un viaggio. La sua è una ricorrente visione marina, quasi come fosse essa stessa un elemento d’acqua, di mare, quasi come ella avesse nel suo occhio una geografia di spiagge e di speranze, specie quando il treno scorre lungo il lato adriatico e risale all’improvviso nella lunga lingua di terra che porta all’interno, verso il Nord, e lascia il mare alle spalle con la sua improvvisa lontananza.
La poesia, si sa, racchiude in sé il miracolo del ricordo e dell’attesa, riporta con sé i fotogrammi di un viaggio, di un avvenire. Ciò che c’è nel cuore poetico della Mancinelli, già abile nell’usare i ferri della poesia, tanto che non si avverte che sia un esordio, ma piuttosto una conferma. Fa piacere che l’autrice esprima una sua via, evitando ermetismi eccessivi, o involuzioni ritmiche, così come viene evitato il dilettantesco ricorso alla facile musicalità.
Soprattutto, ulteriore prova di maturità, ci pare che la Mancinelli evidenzi una scrittura responsabile, umile, esente da presuntuosità, facilmente riscontrabili in tante raccolte giovanili. E si avverte anche una necessità. Insisto nel ricordare che la scrittura debba nascere da un atto di necessità, altrimenti la poesia non esiste. Non sempre è così. Ma è certo vero per questa «piccola corona di spine».
01/04/2008 - Scirocco
Il viaggio, di Marco Ferri
Franca Mancinelli è al suo primo libro di poesie e ha scelto come viatico un frammento dell’Ulisse dantesco, tra l’altro per indicare l’inizio del viaggio, uno scioglimento dei legami familiari, la maturità che intende affrontare dopo aver ripercorso in Mala Kruna (Manni 2007) “tre età della vita”, questo almeno viene affermato in quarta di copertina; quindi suppongo che si trovi – nella sua privata partizione temporale – in una sua terza età. Insisto sull’aggettivo possessivo perché implica anche una notazione di linguaggio: utilizzando una intuizione di Pier Vincenzo Mengaldo che era rivolta a una delle poetesse più inventive e inquietanti nel nostro panorama novecentesco, si potrebbe dire che Franca Mancinelli cerca di far coincidere una sua lingua privata con la lingua della poesia. Ora, mentre la lingua poetica di Amelia Rosselli è molto complessa e variegata, così come lo erano la condizione psicologica e lo stato gassoso delle sue angosce, quella alterazione fortemente dinamica e patologica della sensibilità che, diceva appunto Mengaldo, “lascia agire la lingua”; in Franca non sembra esserci nulla di patologico ma la sua poesia instaura un linguaggio parallelo, a volte reticente per riduzione rispetto al vissuto che riemerge, a volte gelosamente afasico quasi a salvaguardare l’unicità del proprio passato e l’anonimato delle figure che agiscono come sparring partner nel suo percorso poetico di formazione.
Non sappiamo chi è il lui delle poesie di Oltre la giostra e delle altre sezioni del libro, e probabilmente questo pronome indica più persone maschili di diversa età e ruolo che recitano come comparse affettive nella dinamica dei ricordi, forse per questo il lettore si trova incerto tra indicatori di linguaggio ambigui e riferimenti privati ancora caldi di sensibilità ma lasciati in un loro stato nascente, frammentari e genuini: «restano i suoi occhi lontano, / oltre la linea mobile del grano».
C’è questo rapporto contraddittorio tra una voce che “ditta dentro” però rispettando una deontologia della privacy e un mostrare e mostrarsi di una affettività sincera, germinale, che vorrebbe diventare linguaggio condiviso, umanità condivisa: credo che la ricchezza del libro sia proprio qui, nello stupore di una coscienza che colleziona amorosamente i propri frammenti più cari o più vividi, senza collocarli razionalmente nell’album degli schizzi che i viaggiatori portavano con sé mentre facevano le loro esperienze di vita. «Nel treno del mio sangue / salite».
Ecco allora che il lettore sale su un treno ancora più allegoricamente indiziario ed è costretto a fare come quel «piccolo animale / fermo sulla terra / annusata cercando la radice / la traccia». Franca ci avverte che «ogni passo è una stazione, / come la marea sale nel buio»: il suo sismografo capta segnali dal buio della coscienza, cerca di decifrarli, ma non solo, perché potremmo aggiungere che “la bussola va impazzita all’avventura / e il calcolo dei dadi più non torna”. Un sentimento analogo alla Casa dei doganieri è espresso qui nella quarta sezione, Un rudere la casa, una sensazione di perdita e di impossibilità del ritorno, la percezione di un tempo presente che frastorna la memoria e suggerisce immagini surreali, di derivazione pittorica oppure onirica: «il libro sul torace / è il mio terzo polmone / che s’apre e si richiude», «riponendo i pensieri nella cella / di un cruciverba senza spazi bianchi». La poesia di Franca è vissuta come viaggio dentro i propri labirinti interiori, dove avvengono strane commistioni e sinergie, dove il tempo storico è sospeso e il linguaggio diventa sintomo più che mezzo. In realtà, quando si vuole conoscere sé stessi e ci si immerge nelle profondità della propria interiorità, è facile smarrirsi in scenari dove l’io stesso diventa un’ombra e la realtà esterna viene riscritta secondo altri oscuri codici. La voce delle sirene era ammaliante e pericolosa, ma Ulisse voleva ascoltarla.
«La forma dell’acqua». Conversazione con Franca Mancinelli, di Lorenzo Franceschini
Mala kruna (Manni, 2007), della poetessa fanese Franca Mancinelli, è un libro d’esordio straordinariamente riuscito. La grande compattezza stilistica che abbraccia tutto il libro mostra un lavoro molto serio, col quale l’autrice ha saputo costruirsi quegli strumenti che le permettono di modulare il canto della propria esistenza.
Questo libro racconta la tua storia. Ha le caratteristiche degli scritti necessari, quelli che l’autore deve scrivere assolutamente. È stato davvero necessario per te scrivere questo libro?
Sì, con questo libro ho attraversato le mie ferite. E mi sono accorta soltanto dopo, quando era stampato, che in effetti un libro é una ferita rimarginata. Ho compreso anche un po’ l’incertezza a tratti ossessiva che mi aveva accompagnato nella stesura dei testi e poi nella costruzione di Mala kruna. In effetti per me un verso o una parola era una questione di vita, un po’ come lo era stato nel 2002, quando ho scritto i primi testi, la scoperta che non c’è dolore che non possa essere ruotato, capovolto, detto in diversi modi. Non c’è niente che possa inchiodarci, se noi usiamo la lingua siamo sempre in qualche modo vivi, in viaggio.
Alcuni testi di questo libro li ho sentiti come se avessi dovuto tatuarli in me; proprio come quando si decide di fare un tatuaggio, la necessità di quel disegno o quel colore deve essere assoluta. L’incertezza che mi dominava nella scrittura e nella scelta delle varianti era dovuta anche al fatto che sentivo di lavorare sul mio corpo. Era come se lo stessi ricostruendo dopo una frana. Un’altra parola era un’altra vena.
Nella prima sezione, la più antica di Mala kruna, è come se ci fosse sepolto un libro: una trentina e più di poesie narrative sull’infanzia, che hanno poi subito forti metamorfosi (nel senso dell’essenzialità e dell’elissi) o sono state abbandonate.
“Mala Kruna” è un bellissimo titolo, e tu lo hai raccontato nella poesia che apre il libro. Quell’espressione sembra una formula magica che rende possibile ritornare indietro nel tempo. Io ti ho ascoltato raccontare le circostanze in cui per la prima volta hai ascoltato quelle parole, e penso che conoscerne la storia non tolga nulla al loro fascino e al loro mistero. Vuoi raccontarcela?
Durante un viaggio in barca a vela che feci quando avevo diciassette anni, in un giorno di cattivo tempo ci fermammo in una piccola isola della Croazia di cui non ricordo il nome. Camminando per la strada principale di un paesino un’anziana mi si affiancò in una maniera così familiare che rimasi colpita, e mi disse queste due parole (mala kruna). Poi si fermò a guardare un volantino appeso sul lato della strada che annunciava una festa religiosa. Io pensai che mi avesse detto qualcosa di simile a “cattivo tempo”, come si usa a volte tanto per interloquire. Ma ero rimasta così folgorata da quell’incontro che il giorno successivo, in un mercatino, cercai un vocabolario di italiano e croato e lì trovai il significato di quella frase: mala significava piccola e kruna corona, anche corona di spine. Poi, a distanza di anni, ho deciso di aprire il mio libro con la poesia legata a questa vicenda e di intitolare il libro proprio Mala kruna. Non sono molto brava a trovare i titoli e devo dire che questo ad alcuni non ha convinto (a Giorgio Bàrberi Squarotti, ad esempio, e ad Alberto Bertoni). Ad ogni modo per me quella frase rappresenta un po’ l’inizio del viaggio; è un po’ come quando, nelle favole, il protagonista incontra una strega che dice qualcosa di vero sul suo destino, che annuncia una serie di prove da superare.
Parlami dell’esergo che apre il tuo libro, due versi della Divina Commedia, del canto di Ulisse: «né dolcezza di figlio, né la pieta/ del vecchio padre, né ’l debito amore». Perché hai scelto questi versi?
Il XXVI canto dell’Inferno è uno dei canti che amo di più. I suoi versi, insieme ad altri di Dante, Petrarca, Leopardi, li scelsi fin dal liceo. Allora avevo l’abitudine di trascrivere i testi che più mi colpivano in un foglietto che portavo con me nelle passeggiate e nei giri in bicicletta serali, finché non li imparavo a memoria. Credo molto nell’importanza di avere nella memoria i versi che riteniamo fondamentali. Si sciolgono nel nostro sangue, nella nostra voce, possono tornare a farci compagnia in ogni momento.
Quei tre versi del canto di Ulisse sono come un raccoglimento prima di un salto, un momento negativo prima dello slancio del viaggio. Ma estrapolati così come li ho riportati in epigrafe rappresentano, se ci pensi, un dramma, un trauma. In tutto il libro ho cercato la lingua per dire quello che sembra incomunicabile (il dolore e la perdita andrebbero urlati oppure mimati; quando trovano le parole sono già altro). Quando, a libro concluso e ormai deciso nella sua struttura, mi sono trovata di fronte a quei tre versi ho riconosciuto, con un sorriso, che dicevano tutto quello che io non riuscivo o non ero riuscita a dire. Credo anche che, in Mala kurna, più che un vero e proprio viaggio ci sia un continuo e ripetuto tentativo di andare, di fuggire, di staccarsi. Un passo che viene accennato, ma non compiuto. L’andare è già liberarsi, mentre io ritorno sempre nelle mie prigioni (anche per questo era giusto che l’epigrafe contenesse l’abbandono dei legami affettivi che può preludere ad una partenza, come alla presa d’atto di una tragedia).
Chi è il tu a cui ti rivolgi nelle tue poesie? A volte sembra che ti rivolga a te stessa.
Nella prima sezione il tu è essenzialmente la figura paterna e poi anche quella di una sorta di amore infantile. Questa figura giganteggia e occupa tutto il campo visivo fino a risultare confusa, evanescente. Mi è così vicina che, in effetti, come dici, è probabile che non la distingua da me: è quasi un prolungamento delle mie emozioni e dei miei sensi. Poi, nella sezione che contiene in qualche modo la prima adolescenza (il mare nelle tempie) e ancora di più in quella successiva (il treno del mio sangue), il tu è l’amato, l’altro che si vorrebbe unito in modo indissolubile, in una pretesa impossibile di comunicazione prima delle parole. L’ultima sezione invece è quella in cui più tento di uscire da questa sorta di dramma interiore per incontrare gli altri, nella loro realtà. Qui il tu si incarna in una serie di ritratti, in una breve galleria di persone attraverso cui ho tentato di guardare (sono le poesie che vanno da un solo viaggio eterno, questa luce a da questo appartamento barricato).
Sono riconoscibili dei poeti che hanno influenzato la tua poesia, pur se hai saputo dare ai loro versi il timbro personale della tua voce. Vuoi dirmi quali sono gli autori che pensi ti abbiano più influenzata?
Posso risponderti dicendo chi sono i miei amori indiscussi: Pavese che ho conosciuto in terza media ed è stato in qualche modo il mio primo autore (prima leggevo libri per ragazzi, Il conte di Montecristo, la triologia di Calvino…); e poi Pessoa che ho incontrato al liceo durante un’influenza. Ma Pavese è indubbiamente quello a cui devo di più.
Gli anni poi dell’Università sono stati piuttosto deludenti. Immaginavo che scegliendo Lettere sarei potuta andare in fondo alla mia passione e invece mi sono ritrovata in una sequenza scandita di discipline e di voti da segnare. Poi per avere di che vivere ho dovuto anche fare due anni e più di SSIS (da cui esco proprio ora). L’impressione generale è quella di essermi inaridita e di avere perso quella ricchezza che avevo al liceo, quando passavo i miei pomeriggi a leggere Proust, Dostoevskij e gli autori che trovavo nella biblioteca di mio padre prima e poi in libreria.
Tu usi il verso libero, ma il tuo metro è come un approssimarsi a settenario ed endecasillabo, metri che costituiscono un fermo riferimento per il ritmo dei tuoi testi. Soprattutto l’endecasillabo è come il tema iniziale su cui poi si intessono le variazioni. È una scelta voluta, nata dalla volontà di agganciare la tua vicenda terrena a qualcosa di eterno, o è il risultato inconscio di quella che Ungaretti chiamava “l’indole dell’italiano”: la nostra inclinazione naturale all’endecasillabo? O neanche questo?
Forse nella metrica ho trovato un appiglio alla mia incertezza. Il fatto di scoprire che il verso su cui stavo lavorando era un endecasillabo o un settenario, mi era, soprattutto all’inizio, di un certo conforto. Poi, andando avanti, è come se quel respiro si sia incamerato in me. Recentemente ho fatto caso a come certi luoghi che mi sono cari siano soggetti a frane (penso alle colline intorno a Fano, vicino a monte Giove, alla zona dell’Ardizio e poi anche al San Bartolo). Il terreno argilloso e il tufo si sbriciolano facilmente. Anche nei miei testi ricorrono spesso frane, “scuciture” e crolli improvvisi. Se penso alla metrica mi viene in mente allora quella rete metallica, sottilissima, che mettono nei dirupi per arginare e contenere le frane.
La seconda sezione del tuo libro, quella dedicata alla prima adolescenza, ha un verso che mi è piaciuto tantissimo: «Tutte cose che non nascono da me». Qui mi sembra che tu abbia identificato bene la natura dell’uscita dall’infanzia: l’identificazione delle cose esterne a noi e il riconoscimento del fatto che ci sono estranee. Puoi parlarmi di questo?
Sì, in effetti uscire dall’infanzia è proprio accorgersi che gli altri sono lontani, che per raggiungerli bisogna adoperare la lingua, e in un modo tale in cui non eravamo abituati (prima d’allora parlavamo con chi ci era familiare e anche fisicamente contiguo). Uscire dall’infanzia è ridisegnare i confini tra noi e gli altri; riscoprire e ristabilire le vicinanze e le lontananze. È un periodo denso di delusioni che ho attraversato dopo la laurea, quando si spezza quel velo che ci aveva protetti fino ad allora.
Quel verso che citi è di una delle poesie più “ermetiche” del libro; volevo dire di come molte cose che ci accadono tornano con la regolarità di un’onda a batterci, a frantumarci. Noi non ne siamo responsabili (almeno apparentemente); registriamo soltanto l’accaduto come l’ennesimo incidente, l’ennesima ferita. È poi soltanto la consapevolezza che, quando avviene, ci permette di guardare indietro il ripetersi di certe vicende, di scoprire il «tempo conficcato come seme rotto», come qualcosa che non nasce, non va avanti, resta nella sua lacerazione.
A leggerlo con attenzione, il tuo libro è davvero appassionante. Vi si leggono i segni di una crisi che viene superata, ma poi si ripropone con forza tremenda («ed ora che potrei / stringermi all’incubo che ho gridato / chiudo le arterie e torno / monca alla vita»). Sembra che alla fine di questo viaggio tu abbia ottenuto qualcosa: dopo tanto soffrire, la ragazza ha trovato una sua identità, la poetessa ha trovato una sua voce («ho la forma dell’acqua e un suono / come ogni animale un verso»). Hai acquisito una forma, ma, paradossalmente, la forma è quella dell’acqua, che non ha alcuna forma... è come se avessi trovato molto più di una forma statica, magari certa e definita, ma chiusa, sclerotizzata, e difficilmente adattabile alle catastrofi della vita. Forse la condizione che hai raggiunto è la possibilità di vivere in tante diverse condizioni, aprendoti al mondo. Un’apertura ottenuta con la certezza di te stessa, che hai conquistato scavando dentro di te e dentro il tuo passato. Infatti, ora il tuo presente ha dei punti fissi, perché hai inserito nel tuo passato come dei segnalibri cui puoi affidarti per trovare ciò che cerchi («come l’interruttore nella notte / che trovo accarezzando la parete / del mio vivere so dov’è l’amore / a tentoni ritorno a sedici anni»). Sottoscrivi questa mia lettura?
Sì, anche se nell’ultima poesia che citi, la prima persona che parla è in realtà un amico. Questa è una di quelle poesie di cui ti dicevo prima, in cui cerco di dare la voce ad altri (che poi, inevitabilmente, mi somigliano, proiettano qualcosa di me).
È vero quello che dici, c’è una sorta di progressione nel libro. Anche se parlavo, più che di un viaggio, di una sorta di partenza rinviata all’infinito, in effetti, qualcosa dalla prima all’ultima sezione sento che è avvenuto. L’inquietudine che confusamente mi tratteneva, mi impediva (come nell’immagine delle barche e del sangue fermo nella prima poesia) è divenuta un dramma che ho attraversato, un dolore che ho percorso. L’apertura alla vita di cui parli, quel sentimento a volte anche euforico che mi prende e mi fa scorrere sulle cose con la “forma dell’acqua” è lo stesso che c’è nella poesia e la ragazza arco che è una sorta di autoritratto. In quest’accoglienza, in questo sentire che ad ogni passo è possibile che accadano cose grandissime, la ragazza unisce due poli opposti, macerie e nascite, incontri e abbandoni. Perché aprirsi alla vita può essere un’autodistruzione, un cancellare i propri confini, come un divenire qualche cosa che contiene gli altri e li porta, “nel treno del proprio sangue”.
01/05/2009 - La Clessidra
Una percezione nella propria esistenza, di Alessandro Moscè
Mala kruna di Franca Mancinelli, nata a Fano nel 1981, è una raccolta di poesie che dimostra come le Marche siano ancora foriere non solo di iniziative legate al mondo, vivissimo, di una nobile arte, ma anche capaci di esprimere voci giovani di sicuro affidamento. Mala kruna è un libro dove le metafore della Mancinelli sorprendono per la loro incisività e precisione. L’idea del viaggio in treno è concreta e al tempo stesso ideale. Progressive perdite e abbandoni, come riportato nella quarta di copertina, accompagnano la poetessa nel suo sostare e nel suo andare. Un romanzo poetico di formazione, senz’altro, questo Mala kruna (che vuol dire, in croato, “piccola corona di spine”). Si pensi ai versi d’apertura, ariosi e struggenti, lineari, e significanti nel loro afflato esistenziale: «all’orizzonte un mare diverso / fermava il mare sotto le sue unghie; / madre nera nell’isola / ti venne a fianco e ti disse del vento…».
C’è un altro aspetto saliente che cattura in questi versi, e cioè il rigore e la misura, senza sussulti, senza sfasature, sul piano strutturale. La parola stessa è perentoria, testimonianza di una vicenda autobiografica, di una ferita da chiudere nella vita e riversata nello scrivere. L’autrice si fa interprete di una domanda sul senso della perdita intesa anche come fine di qualcosa che non tornerà più. Una volontà, la sua, manifestata nel bisogno d’amore che risulta una richiesta garbata, una considerazione che va oltre il presente, oltre il contingente: «dal giorno che non rispondi allo sguardo / cresce ruga sul gomito il ricordo, / sui tavoli dell’asilo non segui / l’impronta non pensi / che oltre la giostra / c’è ancora lui che dorme in fondo, / e non lo puoi svegliare».
Un amore paziente e ostinato, scrive Franca Mancinelli, un orizzonte al quale credere, nonostante tutto. Una lotta che interpreta storie personali e micro-eventi, una ricerca che non si esaurisce in scarne considerazioni, ma si alimenta giorno per giorno come un riscatto, come una sorta di “sistemazione” interiore alla quale non si deve e non si può rinunciare. L’infanzia restituisce un’età chiave, e tutto si concentra in pochi anni che passano temporalmente ma che rimangono impressi come in un’invisibile incisione («quando il filmino allenta / tornano al fianco solo nei pranzi: / con quanto stupore puntano il dito / su quegli anni di gioia»).
Anni consueti e anni riguardati con “nostalgia creatrice”, con un bisogno d’abbandono che “reperisce” le cose e le riesamina attentamente. E ancora attimi che restano indelebili, abitudini, pensieri che affollano la mente specie nella sezione Un rudere la casa, probabilmente la più bella. Franca Mancinelli nomina «la forma dell’acqua» come qualcosa che le appartiene. Ed è proprio questo il lato più riuscito di Mala kruna nel progetto intenzionale: cogliere una percezione che transita nella propria esistenza, che si fa radice, sostanza, verità propria. Il dialogo inscenato include smarrimento e ritrovamento, fuggevolezza, il peso di interrogativi per lo più impliciti. Le associazioni mentali e l’affiorare spontaneo di un’attesa corroborano i versi senza cadute di tono. La parola asciutta risulta spesso fulminea, esatta, insostituibile. E con essa l’incedere in un viaggio che è soprattutto di conoscenza nella complessità del reale.