Poesie da Mala kruna
e una lettera di Capodaglio
Pesaro, 28 agosto 2007
Cara Franca,
ho letto Mala kruna, la protagonista del quale mi fa pensare ai quadri di Egon Schiele, per come usa la lingua del corpo.
L’occhio nitido, i sensi vigili, il cuore esigente, la pronuncia composta fin nelle metafore audaci.
Sono le ore cruciali di una vita segnata dal dolore e dal coraggio, senza illusioni né voli sognati.
Dai molto e chiedi molto. E questo è sempre un segno di valore. Ti ringrazio allora e ti saluto
con affetto
Enrico Capodaglio
e la ragazza arco
appoggia un piede in aria e congiunge
costellazioni di non generati
al grido che ha rotto ora le acque,
appesa la pelle a un ramo cattura
il vento, è una busta della spesa
di desideri altrui
svaniti in uno sguardo
nel treno del mio sangue
salite
***
qua dove ogni parola è ramo rotto
albero di musica in riva al mare
quale piaga insieme siamo
distanti
solo arsa saliva pesto petto,
ma se gli occhi appoggiassero ai tuoi occhi
ogni nodo al sangue sarebbe fiocco.
***
mentre mi scucio e frano
lui bagna il dito sulla lingua e punta l’ago
nell’aria che mi salda.
Ha fatto uno zaino di me in un giorno
l’amore in petali sul pavimento.
Quand’era fondo il silenzio cantava
goccia caduta dentro le costole
si può respirare dalla sua bocca
come l’annegato e camminare
pestandogli i piedi,
ma le gambe vorrebbero fluttuare
come alghe al suono della sua voce
e lui continua a spingere la culla
il suo corpo come un pollice.
Fors’è annodato alle sue dita questo
gomitolo che srotola e svanisce.
***
vorrei con le parole aprirti
questa vita come una mano
che sul tavolo capovolta
aspetta d’essere riempita
stretta nella tua. Vorrei la lingua
a chiudere ogni foro, a intonaco
di questo intreccio di sterpi bruciati.
Saremo due camicie
appese l’una dentro l’altra
per una stagione intera
dove la penombra ha immerso
l’amo negli inverni.
***
il passo sui binari del suicida
svuota le bocche e spezza
le redini di affetti incontrollati.
Ora l’infante potrà camminare
con l’equilibrio che porta le braccia
a sollevarsi inermi dalla terra.
È un giorno strabico, e le persone
s’affacciano sul proprio sangue fermo
chiedendo dove sbuca la corrente
che spinge rossa e perfora gli occhi.
L’obitorio è un lago calmo: le barche
ovali come il seme di una donna,
la carne dove dorme sempre un figlio.