Francesco Cammisa, Il capitano Zangen

28-03-2010
Quel che resta del passato. Due vite alla resa dei conti, di Giorgio De Rienzo
 
È singolare la costruzione della trama del romanzo di Francesco Cammisa che prende il titolo da uno dei suoi protagonisti: Il capitano Zangen. Un prologo rievoca via Rasella e le Fosse Ardeatine: la rappresaglia dei nazisti per un attentato partigiano che volle dieci morti italiani per ogni tedesco ucciso. Wilhelm Zangen allora ebbe il compito di selezionare i nomi dei condannati e di effettuare personalmente l’esecuzione di uno di loro, di cui gli rimase impresso il nome. Nella finzione romanzesca si legge che fu quella la prima volta che il «capitano» uccise a sangue freddo un uomo e che per dimenticare la brutalità del proprio gesto si ubriacò per tre giorni. Poi si passa alla sezione più consistente del racconto, «Sessantatre anni dopo», dove si alternano le vicende, diversamente squallide, di un poveraccio pensionato – Giuseppe Sarcina, che fatica a tirare avanti con il suo magro assegno mensile e, dopo aver lesinato su tutto il superfluo, si vede costretto per sopravvivere a cercare un pranzo quotidiano alla mensa della Caritas – e del capitano tedesco che ottiene, grazie al proprio avvocato, gli arresti domiciliari.
Le vicende corrono parallele. I due protagonisti hanno in comune una fierezza che l’attuale situazione può mortificare, ma non abbattere. Sarcina, benché sessantatreenne e di salute malferma, «faceva ancora la sua bella figura, con i folti capelli candidi e il fisico asciutto». Zangen, nonostante i suoi novantaquattro anni e «un cuore malandato», ha ancora un «portamento eretto» militaresco. Sarcina patisce di trovarsi in «stanzoni maleodoranti», dove deve pietire per ottenere un certificato di povertà. Incede come un «estraneo» nella sala della Caritas, «convinto di poter guardare con distacco al suo tracollo, dovuto ad una società ingiusta, che l’aveva condannato a grandi ristrettezze, sebbene il suo passato operoso non meritasse il contrappasso della miseria». Guarda alla sua vita come a un’ingiustizia e non vuole mescolarsi alla «teppaglia» che ormai «infestava» lo stesso palazzo in cui abita, dove può prevalere l’abuso e la legge non tutela più nessuno.
Il capitano Zangen, uscito di carcere, va a vivere nell’appartamento dell’avvocato che è un fanatico nostalgico del regime e vede nel suo assistito un «eroe», costretto da una «tragedia storica» a vivere una vita di esilio in America Latina, dove tuttavia riesce a «diventare un facoltoso commerciante in una rinomata località turistica», prima di essere tradito, estradato in Italia e quindi condannato all’ergastolo. Il capitano decide di scrivere dei medaglioni di personaggi ai quali deve gratitudine. Ma presto demorde da questo piano e scaraventa il quaderno «nel bidone dell’immondizia». Si convince di essere un uomo «morto dentro», da quando era stato «costretto a scappare come un topo schifoso», braccato dai farisaici paladini della democrazia plutocratica. L’incrocio delle due storie costituisce l’originalità del romanzo, condotto con una scrittura antiquata, ma dignitosa.