Francesco Leonetti, Versi estremi

21-01-2010
Exrtrema ratio, di Giuseppe Panella

Ricordo bene e nitidamente Francesco Leonetti in uno degli anni Ottanta (forse il primo) mentre presentava a Pisa, con altri suoi compagni di lotta e di teorizzazione, un libro-rivista di interventi leninisti sul presente (l’editore era Feltrinelli; il libro uscì rapidamente dal suo catalogo di allora e di oggi). Leonetti aveva il volto scavato e scabro dei film girati per Pasolini e l’andatura ondeggiata; lo sguardo distratto, il pensiero rivolto non si capiva a che cosa e non fu facile portarlo al discorso che volevo fargli e devo dire che non ci riuscii certo appieno, restandone deluso… Più di vent’anni dopo, il poeta calabrese è ormai molto più anziano e più provato nella salute e dagli eventi, eppure il tono della sua poesia è pur sempre quello di quei giorni quando qualche speranza militante c’era ancora e i discorsi della politica non erano del tutto disgiunti da quelli della teoria e della letteratura.

Sicuramente, Leonetti è stato uno dei maggiori agitatori di cultura del Novecento (non a caso, infatti, insieme ai suoi amici e sodali Pasolini e Roversi negli anni di Bologna). Autore di almeno uno straordinario romanzo di formazione (Conoscenza per errore del 1961 per Feltrinelli, poi ristampato da Einaudi nel 1978), di versi di grande incisività (In uno scacco (nel settantotto), Einaudi, 1979, è un libro di forza e slancio notevoli), Leonetti sarà ricordato molto probabilmente per la sua attività di animatore di riviste importanti e influenti per la cultura italiana di quegli anni:
 
«VOLPONI. E la tua situazione qual era nel ’66
 
LEONETTI. Frequentavo già certi circoli di vita collettiva dell’operaismo, certe “comuni”, e seguivo le tensioni fra Urss e Cina in alcuni gruppetti con riferimento a Secchia dentro il Pci. E preparavo allora la rivista “Che fare” (senza punto interrogativo) che aveva il titolo del romanzo di Černyševskij ripreso da Lenin… E mi legavo al movimento beat di San Francisco, Ginsberg, Corso, Ferlinghetti, che collaboravano inizialmente; e agli astrattisti della nuova avanguardia artistica, Novelli, Arnaldo Pomodoro che allora viveva là… Ero dunque anarchista e trotskista… Dopo “Officina” con Pasolini e Roversi (e in seguito Fortini, Romanò, Scalia), a cui tu non partecipavi redazionalmente, pur seguendoci nel lavoro critico, io avevo tentato lungamente invano con Vittoriani e Calvino una rivista in tre lingue, interrotta dagli urti fra i tedeschi (Enzensberger, Grass, Johnson, Heissenbüttel) e i francesi (Blanchot, Barthes, Duras, Antelme, Mascolo). Andammo molte volte a Parigi e a Zurigo insieme, Vittorini e io; gli amici più stretti erano Margherite Duras e Mascolo (allora in coppia). Era una grande idea surrealista. Giulio Einaudi ci ha dato appoggio, inutilmente… Vittorini morì poco dopo»
(Paolo Volponi – Francesco Leonetti, Il leone e la volpe. Dialogo nell’inverno 1994, Torino, Einaudi, 1995, pp. 80-81).
 
Dal 1966 a tutti gli anni Ottanta, in cui lo sforzo organizzativo di Leonetti si disperde in mille rivoli nelle riviste cui collaborava (penso fra tutte ad “Alfabeta”), Leonetti sarà un “intellettuale organico” di rigorosa osservanza gramsciana. Dopo di che le sue numerose pubblicazione tra i Novanta e il nuovo secolo si faranno più rammemorative e talvolta frenate da una necessità di fare bilanci e di costruire prospettive per il futuro non immediato. Queste Poesie estreme (ma che non saranno certo le ultime) rappresentano una sorta di canto del cigno del poeta che si racconta nella sua dimensione finale di scrittore giunto alle estreme conseguenze del suo dire: mettere in poesia la sua vita e narrarla ancora come episodio finale ma ancora esemplare della sua esperienza di uomo e di poeta.
Scrive Romano Luperini nella sua breve e densa Prefazione al volumetto:
 
«Il materialismo biologico (che è sempre stato una caratteristica di Leonetti poeta e intellettuale) si determina in questa epica della quotidianità o forse, meglio, della domesticità: una domesticità laica e disadorna, ma ancora ricca di succhi vitali. La dimensione del simbolismo e del soprasenso è decisamente scartata. Esistono solo il corpo e le cose, nella loro concretezza e tangibilità, nient’altro. Lo stile è basso e prosastico, ma s’increspa in scarti bizzarri, in soluzioni aspre o divertite. L’endecasillabo è lontanissimo da ogni scorrevolezza e gradevolezza; non ha niente del Petrarca lirico, ma semmai qualcosa del Dante comico. Il Vecchio gioca con la misura endecasillabica, con le rime e assonanze, e le ricerca spesso ricorrendo a lievi impuntature, e anche a forzature e ad arbitrii, quasi per gusto ludico e gratuito del divertissement. Questo ritorno del represso formale, come lo chiamerebbe Orlando, è l’estremo piacere del Vecchio. Ma vi si avvertono anche l’amore per l’eccesso e la tendenza all’espressionismo che hanno contraddistinto sempre l’arte di Leonetti, seppure ora smorzati in un ritmo e in una prosasticità che fanno pensare soprattutto alla lezione di Saba»
(Francesco Leonetti, Poesie estreme, San Cesario di Lecce (LE), Manni, 2009, p. 6).
 
Il dettato di Luperini è preciso e ben documentato. Ma, senza troppo scomodare Dante o Petrarca, a me alcuni testi del vecchio Leonetti ricordano molto un Cecco Angiolieri certo più bonario e meno apocalittico. Il poeta, infatti, si chiede a chi donare un patrimonio? (p. 33), se mi piacesse il viaggio, dove andrei? (p. 34) oppure se avessi un parco, cosa ci metterei? (p. 35) e così via ma soprattutto il tono scanzonato e un po’ rude del verso si appunta contro se stesso, in poesie come questa:
 
«Contro se stesso. Che cosa vuole quel vecchio imbecille / che lei si tiene in casa, e gli provvede / i cibi; e lo protegge nei tratti del male? / Costui, marito anziano, mai non esce / per la paura del cadere, scemo, / in un colpo di vuoto nella testa? / Lui perde la coscienza. Ma non l’ha. / La ripiglia, aiutato si raddrizza / col suo bastone e va, un paio di volte / al mese. A cena ha cibi preparati / ed ogni tanto tenta pur di scrivere / i suoi soliti versi, già famosi, / poi s’interrompe per andare al cesso, / oh l’essere cretino diventato! / Ma lei provvede, la scienziata giovane, / insegna tutto il dì, all’alba traffica / nella cucina, predispone, e torna / solo alla sera tardi ed egli è vivo, / disteso sul divano, in sonno o no» (Francesco Leonetti, Poesie estreme cit., p. 29).
 
Dove il lessico è certo tenuto basso (ma il sermo non è turpis) e il racconto della giornata-tipo del Vecchio pensionato è impietoso (ma sempre un po’ sorridente).
Così come l’ammirazione per il mondo esterno, la natura, la vita si rivela sogno di unione panica con essa, assorbimento al suo interno, capacità di capovolgere il dettato del decadimento fisico in slancio vitale, in nuova possibilità di esistenza non individuata. Di conseguenza, qui il tono si fa più alto anche se non rinuncia alla dizione materialistica dell’evento:
 
«Il meglio nel mondo. Non ci sia, o ci sia, il dio nel cielo, / in terra è l’albero l’ente supremo: / risana l’aria col suo proprio ossigeno; / senza di lui, moriremmo noi tutti; / diritto, con la chioma volta all’alto, / sui piedi saldo sta, solo o nel bosco… / Vengono poi e gli animali e l’uomo, / che era scimmia una volta, e ora è assassino: / disbosca, sfrutta, spreca, prende o butta; / mangia gli altri animali fatti a pezzi; / tutto è per lui denaro oppure chiesa; / senza obbedire a lui si va in prigione. / L’albero provvede e vive nei secoli: / e ficcatemi dentro, quando io crepo, / in un suo squarcio, io fondo gli ossi miei / con le sue fibre, vivo altrettanto e miro / l’alto, il sublime, il vero, il mondo intero» (Francesco Leonetti, Poesie estreme cit. , p. 42).
 
In questo desiderio estremo di essere albero, di mantenere cioè nella terra, le proprie radici di uomo, Leonetti si rivela capace di scandire con grande semplicità eppure con un forte pathos di appartenenza, il passaggio che avviene nell’ambito dell’organismo vivente della Terra tra i suoi mondi così apparentemente diversi, eppure collegati strettamente tra di loro; eliminando, quasi en passant, la necessità del trascendente, il poeta si rivela seguace di un ilozoismo non puramente filosofico o concettuale. Fondere le proprie ossa (dopo essere morto) con la materia vivente di un albero, si rivela, allora, atto mito-poietico, ripetizione di eventi lontanissimi ancora presenti nella mente dell’umanità (la ninfa Dafne o Lotide inseguita da Priapo che si fanno creature vegetali). In questa sintesi tra mito e materialità (anche cruda) del presente riposa forse l’interesse ancora vigente in queste postreme dichiarazioni di fede nella scrittura poetica.