Francesco Macciò, Come dentro la notte

01-05-2009
La circolarità di un viaggio tra realtà e surrealtà, di Ilaria Corsello

Preliminarmente, prima cioè di varcare la soglia di ingresso al romanzo Come dentro la notte di Giacomo di Witzell (Lecce, Piero Manni, 2006, con una presentazione di Francesco Macciò), ci accoglie un breve componimento poetico, collocato significativamente in epigrafe. Leggiamolo:

 
Se i profili orientali delle schiave
lungo una medesima linea retta
l’orologio meccanico sospinge,
un altro orologio rotea frattanto
le Ore dïurne in un rondò brillante
e le notturne in uguale minuetto.
                                                 
Così si compongono tutte quante
congegno preciso a confuso tempo.
 
Questi versi, scritti da un autore che, come indicano le Annotazioni finali, rimane pressoché sconosciuto, ci offrono la chiave di volta di tutto il romanzo: la narrazione scorre su due livelli, due piani sovrapposti ma speculari, indistinguibili l’uno dall’altro, in quanto non si riesce a riconoscere ciò che è reale da ciò che non lo è, ovvero da quello che del reale potrebbe configurarsi come immagine riflessa o trasposizione onirica. Siamo di fronte a due entità distinte che coincidono, come appunto i meccanismi precisi di due orologi meccanici che muovono le ore, l’uno in un moto lineare, l’altro, che farebbe pensare piuttosto a una specie di carillon, in un moto circolare: congegni precisi che, pur mantenendo ciascuno la propria fisionomia, diventano irriconoscibili nella loro stessa funzione di comporre, o di confondere, le ore di un tempo che scorre sempre uguale a se stesso.
La descrizione in apertura dell’antico teatro romano, “curvato tra il cielo e la terra… in un gioco visivo di estensione e profondità”, fa da snodo di collegamento tra questi due livelli: da una parte le cose terrestri, un mondo reale; dall’altra le cose eteree, evanescenti, un mondo surreale. E, procedendo nella lettura, si ha l’impressione di entrare contemporaneamente in due romanzi: uno fatto di gente viva e storie concrete, ambientato nei bar e lungo le strade, le piazze, i canali di una città notturna, infreddolita dal vento e dalla pioggia, descritta attraverso precise localizzazioni topografiche; l’altro, che emerge da uno stesso fondale, si dipana in un viaggio tra figure spettrali, come in un mondo ctonio che sale alla luce e si addensa in storie che hanno il sapore indeterminato di riti arcaici o, altre volte, di filigrane appese al filo di ragno della memoria. Ma i due piani di scorrimento, i “due romanzi”, per così dire – ed è motivo di intrigante fascino in quest’opera singolare – si intrecciano, si sovrappongono, si confondono… Anche il protagonista, Giacomo, si sdoppia nella figura mefistofelica del Conte, suo antagonista più che suo alter-ego. Sono due parti della stessa persona, parti complementari ma anche opposte l’una all’altra: Giacomo è fisicità, azione impulsiva – sia pure imbozzolata, straniata in una nebbia onirica – come vediamo, ad esempio, nell’attrazione verso la ragazza africana incontrata per strada o nelle sue considerazioni sul sex-appeal della cassiera di un bar; il Conte è pensiero raziocinante, come si desume dal suo modo di condurre la conversazione o da quanto il personaggio rivela di sé nella parte conclusiva Ai lettori, di cui, nella finzione letteraria, sarebbe egli stesso l’autore. Ma il gioco è più complesso, e talvolta un personaggio sembra assumere le stesse caratteristiche, e perfino la stessa voce, dell’altro; così affiora l’istintività del Conte nel realizzare la sua performance, o “prestazione” come la chiama lui, una sorta di coup de théâtre che lo rivela empaticamente a Giacomo, ma anche in Giacomo, il suo affidarsi all’istinto si risolve in un atteggiamento cogitabondo di inerzia che ne blocca l’agire, in una sorta di inettitudine esistenziale, in un lasciarsi andare alla deriva. Vengono in mente, per questi aspetti, alcuni versi di Antonio Machado, che presenta un soggetto dimidiato nel suo “complementario”: nell’io, in uno o in due che esso sia, i personaggi si cercano e vanno sempre insieme, combaciano, ma sono anche reciprocamente l’uno il contrario dell’altro.
Il romanzo è articolato in diciotto capitoletti; i primi tre, che recano l’indicazione di “appunti”, sono strettamente interconnessi e svolgono una funzione proemiale, di ambientazione al clima generale dell’opera. La sequenza iniziale ci accoglie in un’atmosfera di pietra. Il ghetto ebraico, il teatro romano, il castelliere e la basilica di San Giusto, l’Orto lapidario e gli Alyscamps arlesiani, che ad esso evocativamente si collegano, sono luoghi stratificati di conflittualità storiche, luoghi di rappresentazione e di indagine di un “io” in absentia, in quanto non ancora chiamato in scena, ma anche luoghi di interscambio tra presente e passato, compresenza di luce e ombra, anche nel rovesciamento attributivo dei rispettivi campi semantici, che acquista valenze simboliche, se addirittura non si configura, sorprendentemente, come mise en abîme dell’intero lavoro. Tutto intorno è silenzio. Appare l’immagine di una ragazza, raffigurata, in una connotazione oppositiva, con i capelli color del sole e gli occhi scuri come la notte. La vediamo alzarsi da terra, dall’erba su cui era distesa, e lentamente allontanarsi: non si volta, ma si ferma come in attesa, poi comincia a salire e a svanire verso l’alto, in un pulviscolo azzurro. Figura, la ragazza, di collegamento tra i due mondi, tra il regno dei vivi e il regno dei morti, che appare tuttavia legata più al mondo surreale ed evanescente delle ombre che a quello concreto della realtà. Ma spettrale è tutto il romanzo, e la notte, nel suo interno, nel suo “dentro”, accoglie tutti, come la morte. Si configura così, fin dalle prime pagine, questo mondo notturno che si sovrappone a quello diurno, a quello dei vivi, anche se, come detto, il carattere di luminosità sembra appartenere più al mondo della notte, mentre quello di opacità più al mondo della luce.
Il protagonista, che afferma di svolgere il lavoro di accompagnatore turistico, come apprenderemo più tardi, ci accompagna in questo viaggio notturno. Non sembra assolvere al ruolo di uno psicopompo, ma piuttosto assommare in sé le caratteristiche di Dante e quelle di Virgilio, ovverosia le peculiarità di chi guida e di chi è guidato, che in lui si uniscono indistinguibilmente fin dall’inizio, fin da quando incomincia la sua discesa nel regno luminoso delle ombre. È già descensio calarsi verso la città che sta in basso, verso il “gas del mondo”, percorrendo mastodontiche scale. È già descensio lasciarsi alle spalle “il territorio di tutte le guerre e di tutte le conciliazioni possibili”, e procedere lungo il declivio del colle di San Giusto, costellato da sfere di pietra sulle quali è scolpito il nome di chi non c’è più, fino ad avvertire il “frastuono feroce del traffico urbano”. Ma questa discesa trova compimento nella nebbia che l’inghiotte, che trasfigura la topografia urbana, e avvolge la terra “sbregada”, le bassure strappate al mare, divenute il fondo, la piattaforma intricata di strade entro i cui confini si distende, nella sua traiettoria circolare, la passeggiata di Giacomo. Tutto avviene, dicevamo, attraverso un distacco in un di là che, pur in un’idea di evanescenza, acquista una concretezza di rappresentazione, una solidità dantesca, purgatoriale, direi, più che infernale, nello sguardo con cui, lungo il cammino, vengono tratteggiati gli incontri di Giacomo con i vari personaggi, alcuni dei quali appena abbozzati, altri invece meglio definiti, che compongono tutti quanti una piccola galleria di vividi ritratti, per definirla così, se non addirittura un microcosmo variegato di exempla,di virtù più che di vizi.
Sono personaggi collocati fuori del tempo; sembra che siano lì da sempre, proprio lì dove li incontriamo, e dove ogni sera potremmo di nuovo incontrarli: figure fisse bloccate nella circolarità dei loro gesti e delle loro parole. Ciononostante, seppure chiuse in una stagnazione di vita, dantescamente collocate in “un’aura senza tempo”, sono figure vive, vitali. L’uomo sulla sedia a rotelle che aspetta il ritorno della ragazza che ama, la donna corpulenta con la sigaretta accesa, la vecchia megera seduta su una sedia impagliata, le prostitute africane che ondeggiano in una specie di danza tribale, la bella cassiera del bar, i giocatori di scopone scientifico, i baristi cordiali, inclini alla conversazione, sono tutti personaggi di una commedia umana che sembrano usciti da una ricognizione sabiana nelle oscure e popolari vie della città vecchia: non a caso il poeta triestino viene evocato sia da Giacomo sia dal Conte. Anche qui, come in Saba, assistiamo alla rappresentazione di una Trieste rasoterra; anche in questo caso lo sguardo dell’autore è rovesciato e, pur scevro da giudizi, salva chi o quanto, nel comune sentire del benpensantismo borghese, sarebbe invece da condannare. Il riflesso angosciante della realtà odierna è dato soltanto dai messaggi pubblicitari, gli head-line della telefonia cellulare, che si contrappongono al corpo irriconoscibile di un clochard fasciato nel cartone, e, più significativamente, dal personaggio che blatera parole senza senso al suo telefonino, ma, per farsi capire nella lingua alienata “dell’efficienza e del profitto”, si agita scompostamente ed esce dal bar: ne è rigettato fuori, come se appartenesse ad un altro mondo, un mondo che non può iscriversi nei luoghi e nei tempi di coloro che vivono “su una specie di zattera traballante”.
Accanto a questi personaggi, compaiono in controluce figure che non esistono più, o che esistono soltanto nell’assolutezza di un registro temporale capace di declinarle ancora nell’oggi, come la giovane profuga istriana finita sulla strada, di cui racconta lei stessa, divenuta altra da sé; o come la figura del nonno – di cui racconta il Conte – svanito nel nulla alla stessa maniera delle nuvole che osservava mutare forma nel cielo (e questa percezione della perdita si salda con la tragica realtà storica, non rimossa e forse non removibile, delle foibe); o come Mira, cui è dedicato l’ampio flashback che occupa un intero capitolo, una sorta di presenza numinosa che sostiene il peregrinare di Giacomo verso un “desiderio assoluto di quiete e di bellezza”. L’atteggiamento di inesausta ricerca attraverso una rivisitazione del passato, sembra collegare il protagonista a due personaggi promossi in un’accezione mitica, Winkelmann e Van Gogh, che sono ricordati emblematicamente nelle pagine iniziali del libro, pagine che per molti aspetti, dicevamo, ne anticipano e ne focalizzano i motivi dominanti. C’è un senso di frustrazione e di sconfitta, nella ricerca impossibile di una forma perfetta condotta “fuori del tempo della propria vita” dall’archeologo tedesco, o riesumata con quotidiana fissazione lungo i giardini di pietra arlesiani dal pittore olandese, ed è lo stesso senso di resa che affiora anche in Giacomo, costretto a viaggiare senza una mèta “in tutte le direzioni possibili”, finché la forza lo sorregge. E il viaggio condurrà Giacomo in un non-luogo e in un non-tempo, ovvero in uno spazio imprecisato che sembra far regredire il tempo nella dimensione irreale, o meglio surreale, dell’infanzia, stando a quanto si ricava, in quel capitolo aggiunto che è la parte finale Ai lettori, dalle ultime parole di Giacomo, lasciate impresse nel file inviato al Conte, che altro non sono che le parole in inglese di una celebre nursery ryme.
Ci si potrebbe fermare anche qui, se non restasse ancora l’obbligo, nel descrivere un’opera che dà conto di un viaggio che si svolge in una sola giornata, di tentare alcuni curiosi riscontri intertestuali, non tanto con un’opera come La passeggiata di Walser, con cui pure si potrebbero trovare degli addentellati, ad esempio, nell’allestimento di una galleria di personaggi trasfigurati oniricamente, quanto soprattutto, con un modello imprescindibile come l’Ulysses, anche in forza di un esplicito richiamo, nel quarto capitolo, al periodo trascorso dallo scrittore irlandese nella città giuliana. La passeggiata notturna di Giacomo per le strade di Trieste ricorda infatti, pur in un ricalco tutto esterno, il viaggio diurno di Stephen Dedalus attraverso le vie di Dublino; il Canal, con le sue acque appena increspate su cui galleggia una bottiglia vuota, ci fa pensare alla Liffey, su cui veleggia un volantino accartocciato. E ancora gli scarafaggi che scricchiolano sotto le scarpe della vecchia si possono ricondurre agli “scricchiolanti marami e conchiglie” schiacciati dalle scarpe di Stephen; e infine le cavità della statua lignea della Vergine richiamano i “gusci vuoti di conchiglie” sulla scrivania di Mr. Deasy e le “conchiglie rotte” sulla spiaggia di Sandymount. Nelle cavità del legno, così come nel vuoto delle conchiglie, si compie la forza erosiva del tempo. Ma qui, in quest’opera stratificata che gioca su piani sovrapposti, la statua lignea erosa dai tarli e sul punto di “sedersi a terra in un cumulo di polvere finissima” – esperienza onirica ricorrente in Giacomo – acquista inquietanti significati allegorici che minacciano la consistenza dell’impalcatura su cui poggia il nucleo della storia. Una storia, va detto, da leggere tutta d’un fiato, condensata in un libro compatto, fitto, avvolgente, che ruota attorno al tema centrale del viaggio, viaggio nei tempi e negli spazi della memoria, via “di crescita e di declino” che non lascia agio ad altre inutili divagazioni.
Non siamo di fronte all’Ulisse omerico, chiuso nell’idea del nostos, non a quello dantesco, che non vuol tornare e si spinge oltre i limiti della conoscenza umana, e neppure, nonostante alcune esibite coincidenze, a quello joyciano, il cui peregrinare per le vie di Dublino risponde a un’ansia di ricerca, carica di valori simbolici, che si aggroviglia in labirintici percorsi interiori. Il viaggio di Giacomo, invece di cercare approdi, di recuperare una rotta, o di seguire “virtute e canoscenza”, si riflette nella stessa idea costitutiva del viaggio, che è distaccarsi, portarsi al largo. Questa idea, questo portarsi al largo, non conduce in nessun luogo e in nessun tempo; casomai, come in un gioco di specchi, sarà un ripercorrere gli stessi luoghi e gli stessi tempi che hanno segnato il percorso lineare dell’esistenza del personaggio, collocandoli in un’idea di circolarità che sospinge i suoi passi e i suoi ricordi a ricondurre il proprio “io”, o i suoi diversi “io”, nei possibili tracciati della sua storia personale. Tutte le stratificazioni spazio-temporali, che affiorano frammentate nella memoria, vengono così chiamate a ricomporsi o ad annullarsi nel presente, proprio come l’orologio meccanico del testo in epigrafe, che muove linearmente le ore, raffigurate sotto le forme straniate di schiave orientali, cui si sovrappone un altro orologio meccanico, che invece fa ruotare le Ore (con l’iniziale maiuscola, che rinvia alla loro personificazione nelle divinità della mitologia classica) nella circolarità di un movimento inesauribile, al quale nessuno può sottrarsi.