Francesco Petrarca, Bucolicum carmen

01-10-2005

Un Petrarca bucolico fra erudizione e selve, di Daniele Piccini


Il Petrarca, come si sa, si riprometteva fama e considerazione dalle opere latine e non tanto da quel Canzoniere che, non senza sprezzatura, intitolò Rerum vulgarium fragmenta. Una parte significativa della produzione latina in versi è rappresentata dalle dodici ecloghe del Bucolicum carmen, cui l’autore lavorò per lo più tra il 1346 e il 1352, per poi copiarle nell’autografo (Vaticano latino 3358) nel 1357 a Milano, salvo tornarvi ancora su con correzioni e rasure. Su questo codice si fonda l’edizione critica di inizio Novecento di Avena e ora la nuova traduzione di Luca Canali, che giunge a trentacinque anni di distanza dalla precedente del Mattucci.
Nel riprendere il genere bucolico, Petrarca riannoda le fila delle ecloghe virgiliane, con un incremento tuttavia di allegorismo e di allusività a situazioni e personaggi contemporanei. Un ruolo preminente, come è naturale per un genere che si costruisce sulla messa in scena dell’otium poetico, è giocato dal discorso sulla poesia, con la centralissima ecloga IV, di elogio dell’arte, e naturalmente con la eruditissima ecloga X (Laurea occidens), in cui vengono passati in rassegna i maggiori e minori poeti greci e latini. Ma a colpire il lettore, aduso alla sovrana e modulatissima medietà tonale del Canzoniere (certo un po’ esasperata dalla volgarizzazione scolastica), è la vivacità, il diapason stilistico molto ampio toccato dal Petrarca in certi punti dei suoi dialoghi tra boscherecce figure allegoriche: sia che si tratti dell’invettiva contro la corrotta e lussuriosa curia avignonese (ecloghe VI e VII), sia che invece a impegnare la penna del poeta sia il lamento per la precoce morte di Laura (XI). Le lagnanze e gli straziati accenti danno conto di un versante meno “sterilizzato”, in termini di correttezza oratoria, di quello lirico in lingua volgare, con accensioni di qualche potenza.
Non è difficile poi, aggirandosi per queste ecloghe, imbattersi nei temi metafisici centrali e quasi ossessivi dell’universo petrarchesco: il tempo edace, il consumarsi della vita, il correre verso la morte nella tensione fra desideri contrapposti. Soprattutto è il senso della labilità delle cose ad albergare strenuamente nel cuore degli esametri latini, a dettare versi quasi gnomici, memorabili, come “Immortale homini nichil est; moriemur et ipsi” (“Niente è eterno per l’uomo; moriremo anche noi”), o ancora “Nempe eterna dies ulla nequit arte reverti” (“Nessun’arte può far ritornare il giorno di ieri”).