Francesco Roat, Amor ch'a nullo amato

01-09-2005

La certezza del bene, di Monica Bardi


Le tre voci che si alternano in questo romanzo di Roat sono affini a quella di Elena, la “donna sbagliata” del romanzo pubblicato nel 2002 da Avagliano che, nella Trento provinciale e borghese dell’anteguerra, andava alla ricerca di un suo modo (attraverso i libri di Goethe, Schopenhauer e d’Annunzio) per riempire il vuoto di un mondo familiare e sociale segnato dall’assenza della parola. Anche il tono dei tre personaggi di questo nuovo romanzo, Ferruccio, la madre Paola e Bella, è quello di chi si sforza di ricostruire la propria storia, compiendo un percorso d’individuazione e di riappropriazione di sé. Tocca al lettore, attraverso questi tre punti di vista che si accordano solo a tratti, di ricostruire la storia, con un lavoro attivo di dialogo con l’autore.
Da questa fatica comune, che è richiesta da una struttura complessa e implica un’attenzione vigile rivolta verso i dettagli, emerge dal buio soprattutto la storia d’amore che ha legato Paola al barone Klaus von Klausemberg, che ha un peccato storico e individuale da scontare e che tuttavia, nelle vesti di padre-zio, ha accudito con affetto Ferruccio; il ragazzo è vittima di un disagio psicofisico che si complica con il passare del tempo: dall’innocua osservazione delle gambe delle passanti, che fotografa compiendo una selezione estetica esasperata, Ferruccio devia verso un’eccitazione emotiva che si trasforma in amore ossessivo nei confronti dell’infermiera Bella. Cercando uno stile per il delirio di Ferruccio, Roat, evita le scelte più ovvie, conscio di essersi messo sulla strada abusata della descrizione della patologia psichica. Ne deriva una scrittura che continuamente cambia, sensibile ai mutamenti d’umore ma anche fedele al carattere del personaggio, che sceglie come contrappunto dei suoi pensieri, il tono solenne delle Sacre Scritture.
Le storie sembrano fatalmente scivolare verso l’esito tragico che è stato preparato da flussi della coscienza segnati dalla sofferenza. L’unica a salvarsi e Bianca, che fugge a Venezia, lontano dal lavoro in ospedale, dall’amante e dal ricordo della figura paterna: “Se chiudo gli occhi, riesco ad andare oltre il vuoto di questi giorni. Mi vedo fra dieci anni in una piazza assolata. Salgo per un vicolo bianco. Una bambina sfiora con le dita la calce. Io stringo tra le braccia quella bambina: mia figlia. Ho certezza del bene a venire”.
A differenza di Bianca, gli altri personaggi, sofferenti, afasici, smemorati, finiscono per scivolare, investiti dalla compassione dell’autore, nel nulla.