Francesco Venditti, My sweet family

29-04-2005

Venditti junior, o di come si uccide il padre, di Antonella Barina


«Ho scritto un noir d’ambiente familiare. La storia di un ragazzo che si fa di cocktail d’alcol e droga e vuole scappare da tutto e tutti. Ma piomba sul letto, credendo di morire, e in quel delirio rivede la sua vita rabbiosa: i rapporti marci con padre, madre, parenti… E invece di morire rinasce. Finalmente libero». Francesco Venditti sorride: sembra più giovane dei suoi 29 anni. Più solare di questo romanzo appena scritto, fosco, furente. «C’è un’enorme violenza nelle mie pagine. Bene. Mi piacerebbe essere cattivo come il mio protagonista. Invece mi riconosco in lui solo in parte. Ma purtroppo il libro susciterà ugualmente molte chiacchiere. Coinvolgendo, temo, anche i miei genitori».
Inevitabile, se sei il figlio del cantautore Antonello Venditti e racconti in prima persona di un giovane che massacra di calci suo padre. Se tua mamma è Simona Izzo –attrice, sceneggiatrice, regista, doppiatrice– e descrivi la morte di una madre cieca, con occhi che guardano e non vedono. Insomma, se debutti nella scrittura con un romanzo intitolato My sweet family (che l’editore Manni presenterà la settimana prossima alla Fiera del libro di Torino) e getti uno sguardo duro, risentito su un mondo familiare in sfacelo. Il tutto con scrittura sincopata, frasi brevissime e feroci, flash visivi che paiono cazzotti su un punching ball.
Il 27 maggio Francesco Venditti sarà anche al cinema in Gas di Luciano Melchionna («che come il mio libro parla di violenza e solitudine, vietato ai minori di 18 anni»). E a firmare la sceneggiatura ci sarà tra gli altri la moglie Alexandra, pure lei figlia d’arte: il padre èlo scrittore Raffaele La Capria, la madre l’attrice Ilaria Occhini. La famiglia di Francesco è un clan, in cui spesso si lavora insieme: lui stesso fa il doppiatore nella premiata ditta Izzo (con il nonno, la madre, le zie) e di frequente recita in un film della madre e dell’attuale marito di lei, Richy Tognazzi..
Inevitabile, Francesco, che si tiri in ballo la sua famiglia.
«Lo so, ma è frustrante. Ammetto che essere “figlio di” apre molte porte, ma sei anche un pre-giudicato, ti valutano a priori. E arriva il momento di gridare: io sono e la penso così. È quel che faccio in questo romanzo».
Come nasce il bisogno di scrivere?
«Viene dalla mia bile. Tutto è iniziato con la stesura di alcuni racconti, buttati giù di getto, anzi, all’inizio addirittura dettati a un amico, perché i miei pensieri andavano più veloci della penna sulla carta. Ho scoperto che scrivere aiuta a sfogare il rancore, a metabolizzare i dolori. È una liberazione. Un urlo. Solo rabbia ti fa dire quello che pensi».
Solo la rabbia?
«A volte è l’unico modo per farti sentire, tirare fuori il tuo mondo, superare i “pre-giudizi”. Soprattutto se hai sempre represso la tua personalità. Se troppi vedono in te tuo padre e tua madre. Che sia chiaro, invece: My sweet family racconta solo in parte cose vissute da me. Molte sono vicende che avrei potuto vivere, ma per fortuna ho scampato. Storie di amici che ho solo passato nella mia centrifuga».
Qualche esempio?
«Il rapporto con un padre vile, fallito: non è il mio caso. Ma è una dannazione frequente fra i miei conoscenti. E penso che molti abbiano sognato una volta nella vita di mollare un ceffone al padre. Lo scontro diretto consente di conoscersi meglio. La violenza ti mette in gioco, come l’amore. Una delle rare persone con cui il protagonista non è violento è la madre cieca, a cui si sforza di raccontare il proprio mondo. Mia madre è stata molto affettuosa con me, ma forse ha esagerato con la sua esuberanza, proteggendomi troppo, non facendomi mai sbattere la testa da solo. Il che mi ha reso più vulnerabile».
Fino a che punto il libro parla di Francesco Venditti?
«Il dolore è sempre autobiografico, anche se gli si dà una veste romanzesca diversa dalla realtà. E infatti, ora che è su carta, mi sento messo a nudo. È  mia anche la capacità del protagonista di tirar fuori tanta rabbia. Come era mia, un tempo, la sua carica autodistruttiva: tra i 14 e i 16 anni mi sono ribellato a tutto; e giù droghe,atti vandalici, amicizie sbagliate. Ciò che accomuna tutti i personaggi del romanzo è solitudine. Quel senso di vuoto che spesso viene dalle aspettative che non si realizzano. Un amore non corrisposto, un abbraccio non dato. E invece bisognava darselo, porca miseria. Se no ti monta la rabbia. Quella che ti fa mandare tutti a quel paese, per sentirti finalmente libero».
E quella sua scrittura essenziale, espressionista, dove le immagini sono spesso di una sola parola? Ricorda le sceneggiature o i testi musicali. C’è l’influsso familiare?
«Volevo che avesse il ritmo della sigaretta: ogni frase una boccata. E che ricordasse i film che ho amato e quelli che vorrei interpretare. Ma è stato mio padre a farmi notare che lo stile assomiglia ai testi delle canzoni; e mi ha incoraggiato a continuare così. Ora sto buttando giù un nuovo racconto, storia di una diciassettenne all’ultimo anno di riformatorio, e tento di scriverlo in versi. Chissà che non ne nasca una collaborazione con papà. Da piccolo la musica mi faceva schifo: avevo 7-8 anni quando il maestro idi pianoforte ha rinunciato a darmi lezioni, perché avevo scritto le note sui tasti, in inchiostro indelebile. Una delle tante occasioni che ho sprecato per rabbia: solo ora ho capito che la musica aiuta quando ti senti solo. E ho iniziato a studiare chitarra».
Le è mai venuto in mente di scegliere un mestiere completamente diverso da quelli di famiglia?
«Dopo aver scoperto la recitazione, a 13-14 anni,non ho mai avuto dubbi: è la cosa che amo di più. Uscire da te stesso, essere un altro. O scoprire lati insospettati di te, per me recitare è come per Billy Eliott, quello del film, ballare. E lo stesso è quando scrivo: posso inventare la realtà a modo mio».