Francesco Venditti, My sweet family

06-05-2005

My sweet family: pensieri, valigie e fantasmi


Nella mia camera


Finestra appannata, pioggia cadente.
Specchio in faccia.
Cane che ride.
Moquette anni ottanta, luce del duemila. Puzza di muffa.
Carta da parati sbrindellata dal tempo.
Che non passa mai inesorabile.
Qui sto bene.
Sono felice.
Respiro.
Vivo. Finalmente.
Tutte le volte che esco dalla mia camera è come spegnersi. Resettare.
Cervello di polipi che attacca ventose.
Di nuovo finestra. Mano che leva il vapore.
La macchina è lì, la mia Uno rossa, nel vialetto di casa loro, la vedo tra le sbarre.
Pesante inclinata. Fatta di crack newyorkese.
Valige pronte. Gonfie. Pamela Anderson e Manuela Arcuri.
L’ultima è sul letto aperta. Bocca di una balena squartata al macello.
Aspetta i miei indumenti.
Le camicie.
I calzini.
Il bomber.
La bandiera.
Adidas e Nike.
Dovrò portarmi tante cose. Dovrò portarmi tutto.
Portarmi tutti.
Non devo scordarmi nulla.
Ogni oggetto che tocco. Che afferro. Che sfioro.
Mi fa vivere momenti.
Minuti, secondi, ore di travaglio.
Epidurale. Mascherina sul viso. Bip del cuore.
Conta fino a tre.
Flash di vita.
Flash di morte.
Replay di vita vissuta.
Parole. Facce. Mani.
Calci nello stomaco.
Passamontagna.
Manette per pazzi.
Lacrimogeni accesi nel salone.
Acido muriatico nella vasca da bagno. Coltelli che scendono dalla doccia e scivolano sulla schiena.
Sangue nel lavandino domenicale.
Televisione con calcio. Giochi a premi, ruote che girano.
Camice di forza a ragazzini che si tirano le seghe.
Pus che sgocciola dalla fistola del saccottino mulino bianco.
Tutto quello che mi ha circondato fino ad ora. Quello che mi ha coccolato.
Graffiato, sopraffatto.
Tutto il mappamondo.
È strano. Cazzo. Come.
Ogni piccola cosa alla fine ti occorre.
Ti riempie. Strabordi di lei.
Ti fa venire per quanto ti riempie.
Spesso mi ritrovo a pensare che i dettagli non servano.
Ora.
Solo ora capisco che sono tutto.
I dettagli.
Le rifiniture.
Sono tutto.
Io non l’ho mai avuti.
Nemmeno cercati.
Mi sento quello che non sono.
Specchio.
Vedo nessuno davanti a me.
Quello che non vorrei essere.
Black-out assoluto.
Due dita in gola cercando di vomitare l’anima.
Non esce nulla.
La camera gira come una giostra.
Vasi sanguigni che scoppiano.
Cartina geografica in faccia.
Vulcani a forma di brufoli gonfi.
Vorrei abortire la mia vita dalla bocca.
Specchio. Ancora.
Di fronte a me il mio corpo. Marmo bianco sperma.
Capelli lunghi. Non dormo da troppo.
Uomo senza sonno.
Piercing?
No Cristo non è un piercing. È solo il mio occhio.
Argentato da lacrime.
Completo blu.
Spaventapasseri.
Nessuno spavento. Solo me.
Il vestito delle grandi occasioni.
Bolla di sapone che si disintegra nel freddo della mia camera.
Igloo. Alaska.
Occhi buoni. Sguardo no.
Nicotina sulle labbra.
Avrei goduto a vedere il mio volto in prima pagina.
O nel trafiletto della cronaca.
Cronaca nera. Di morte annunciata al mondo comune.
Il mio dovere non l’ho fatto.
Non ci sono riuscito.
La mia missione. Era davvero impossibile.
A sopravvivere. Io. Non ci sono riuscito.
Malgrado me.
Malgrado tutto.
Le colpe sono degli altri?
No.
Stronzate.
Le colpe sono nostre. Sempre. Comunque.
Non sono loro che devono capire noi.
Dobbiamo noi capire loro.
È qui il punto.
Sarebbe bastato mettersi d’accordo.
Sarebbe bastato poco.
E tutto sarebbe filato liscio, come olio da sniffare.
Tutto sarebbe stato più semplice.
Più normale. Mai banale.
Difficile è parlare.
Impossibile è ascoltare.
Il bello è vedere.
La conquista è osservare.
Non rinnego niente.
Solo me.
Il giusto è pensare.
Il fantastico è sognare.
Calzini, magliette, boxer con sgommate di merda.
Anfibi che ballano. Pioggia che batte un ritmo tip-tap. Cane che si cerca una zecca.
Radio muta.
Pendola in salone che suona.
Clessidra con sangue e vomito.
Il tempo, una sassata in faccia.
Pigiama party con la morte.
Eccomi, sono lì, sono io, quello sono io.
Mi vedo sul letto.
Mani sul petto.
Fiori accanto.
Profumo da obitorio.
Dolciastro. Rhum e coca.
Manichino di neve.
Ghiaccio bollente in fronte.
Candele accese.
Zero ossigeno.
Una bella sbronza. Una bella canna.
Coperte gelate.
Cazzo come un calippo.
Vorrei ibernarmi.
Narghilè in bocca.
Svegliarmi quando le macchine voleranno.
Macchine ad acqua di mare. Pannelli solari. Cazzi bionici.
Telecamere per occhi. Gambe da sette milioni di dollari.
Valium che scorre in vene carbonizzate.
L’alcool che incontra il mio fegato e se lo incula a sangue.
Erba senegalese nei miei polmoni li fa viaggiare verso
un vulcano con la sua crema infuocata.
Un sonno lento.
Pieno di taglierini da scuola che si conficcano ovunque.
Puntine da disegno come freccette da bar.
Un cuore che sbotta per bersaglio.
Il sonno sicuro.
Bevi valium. Flebo di prozac.
Tappeto volante, bacchetta con filtro.
Sepolto tra due ciambelle ripiene di sangue.
Due tette.
Di mia madre. O di qualche puttana.
Un albero che al posto della linfa ha tarantole che giorno per giorno se lo mangiano.
Un sonno.
Quasi morte.
Fatto ad hoc per ricordare.
Per fare incubi.
Con il demone che cammina al mio fianco e mi mostra la strada verso una fine. Che io so già qual è.
Incontri ravvicinati.
Spallate.
Entrare nella sala rossa dei ricordi.
Eccomi, sono lì. Sono io?
No, quello non sono io.
È il mio fantasma Cristo. Quello di sempre.
Mi insegue come un piragna.
Vuole mangiarmi, assaporarmi.
È il serpente che è cresciuto dentro di me.
Giorno e notte dentro di me.
Nelle viscere. Mangiando tutto.
Succhia come Cicciolina. Tutto quello che vuole.
Tutto quello che ho dentro.
Il vomito.
Ora sguscia fuori dalle orecchie. Dal naso. Dalle unghie rotte dai pensieri.
Bestia infame, come il mio mondo, che sbudella il corpo.
L’anima. I sogni.
Dentro di me una metropolitana deraglia. Biglietto solo andata.
Gas nervino.
Flash. Sorridi cazzo! Foto.
Vorrei spingere quel tasto per uscire fuori da me.
E io continuo a vedermi su quel letto.
Warner village e pop corn.
In questa camera tappezzata da poster viventi e ricordi sbiaditi.
Con lampadine intermittenti e acqua vicino alla presa elettrica.
Ancora mi vedo.
Su quel letto che dormo, con il mio cane vicino, sentinella del mio respiro.
La mia morte prematura.