Francesco Venditti, My sweet family

06-12-2005

Come cercare sé stessi a ventidue anni, di Anna Longoni


Una bella sorpresa l’esordio di un giovane scrittore già noto come doppiatore e attore, nonché come «figlio di» (gli illustri genitori, Antonello Venditti e Simona Izzo, e il suocero Raffaele La Capria vengono rigorosamente ringraziati in explicit). Una condizione di cui Venditti sulla soglia del romanzo sembra ironicamente, e scaramanticamente, prendersi gioco strizzando l’occhio al lettore con il titolo My sweet family: il gioco di un attimo perché di ben altro significato il titolo si carica una volta oltrepassata la soglia.
Il protagonista è Luca, un ventiduenne che ricerca se stesso osservando la propria famiglia con lo sguardo appannato di chi dopo una canna o una bottiglia di gin vede dettagli dilatati e paradossalmente rivelatori. Ci sono i morti: la madre, cieca, a cui da ragazzino regalava il proprio sguardo sul mondo (proteggendosi così da quello stesso mondo osservato solo per lei e mai vissuto); un nonno compositore ed ex soldato, che iniziava le proprie giornate sparando contro barattoli di pelati (pieni, perché simulassero il sangue dei nemici); ci sono i vivi: un padre sorpreso in auto con una prostituta (e per questo massacrato di botte); una zia che vive con lucida amarezza il fallimento della propria vita (puntando tutto sulla figlia); una nipote bambina che parla come un’adulta (e gli regala briciole di dolcezza e saggezza); uno zio psichiatra vittima lui stesso della malattia che dovrebbe curare (che cerca nel nipote la vigliacca condivisione di un comportamento vergognoso e colpevole); una nonna che si uccide con il prozac (che si è fatta dare da Luca); una cugina, conosciuta proprio al funerale della nonna, che lo seduce; un amico con cui si incontra alle partite di calcio per parlare d’altro; il cane Woody che in macchina gli siede accanto protetto dalla cintura di sicurezza (abilissimo portiere nelle partite che i due giocano in casa).
A ognuno di loro è dedicato un breve capitolo di un lungo monologo nel quale le parole si rincorrono in rapida, vorticosa discesa per poi spegnersi in brusche interruzioni; uno stile fatto di frasi secche, talora brevissime, spezzate, spesso in forma nominale, che assumono una misura più articolata solo nelle battute di dialogo, quasi a sottolineare che a essere ingolfata è proprio la voce dell’io narrante. Una voce impregnata di slang giovanile, che grida violenza e odio, che si fa in alcuni passaggi stridula perché Luca è imbarazzato dai propri sentimenti, è spaventato dalle proprie passioni e da quelle altrui, dai propri e dagli altrui fallimenti: per questo picchia, urla, insulta. Per soffocare l’attesa di una domanda che lo stani: quella domanda che gli rivolgono prima il padre e poi la nonna (ma anche lei troppo tardi): «Come stai va… tutto bene… eh Luca…?». Una domanda per la quale si accorge di non avere una risposta. Il linguaggio è quello franto e allusivo dei sogni e delle allucinazioni che scorrono nella coscienza del protagonista, il ritmo è quello della sceneggiatura (come accade spesso nelle scritture scorciate, da Flaiano a Bufalino). Una scrittura che qualche volta rischia la maniera ma che viene perlopiù dominata con sicurezza.