Poema-rap sullo zoo familiare, di Filippo La Porta
L’io narrate di My sweet family di Francesco Venditti (Manni, 12 euro, 133 pagine) si presenta decisamente come un cattivo ragazzo: picchia il padre, è corresponsabile della morte della amata nonna, quando vede il piercing della cugina vorrebbe strapparglielo a sangue, ha spesso fantasie sado-maso, sente che il cervello è "una zuppa di fagioli a 100 gradi", vomita di continuo insulti e invettive contro il prossimo, si stordisce con alcool e droga. Difficile affezionarsi a un personaggio del genere. Eppure dietro questa immagine così truculenta sentiamo che si agita qualcos’altro: forse una messinscena “strategica” o magari un inconsapevole autolesionismo o il desiderio di sfogarsi una volta per tutte (quasi una deiezione, un rito di svuotamento). Voglio ricordare che l’immaginario violento e orroroso che attraversa queste pagine non appartiene interamente al suo protagonista: è come una gigantesca cloaca sociale –tutti ne siamo coinvolti– da cui ciascuno può però prendere (parzialmente) le distanze. E anzi a lettura finita ci accorgiamo che Luca (così si chiama) è un’anima candida, di una ragazzo incline ad un romanticismo disarmato, teneramente innamorato della madre non vedente ("Passeggiavamo insieme, le facevo sentire l’aria fra i capelli"). Certo, sa che il suo cuore è buio, perverso, avvelenato, ma quando scopre che il suo cuore è buio, perverso, avvelenato, ma quando scopre che “il nero” che ha dentro di lui ce l’ha anche la cugina, la abbraccia forte: "Vorrei soffocarla./Un abbraccio d’amore". E poi quando addormenta con la piccola, adorante nipotina si mette a dialogare idealmente con gli animali dello zoo di famiglia che gira: "Guardo il 'mio' leone./Mi sorride./la Stella, mi tira un bacio./La Zebra, mi ringrazia con gli occhi". Pensavamo di stare dentro Arancia meccanica e ci ritroviamo in una rugiadosa scena disneyana
Il merito di questo insolito diario-romanzo –interamente scritto in versi, benché senza alcuna metrica– sta nell’aver affrontato intrepidamente il nostro fantasma nazionale, e cioè la Famiglia: "Se tutti i nodi vengono al pettine, il Natale è il pettine delle famiglie". "Natale vuole tutti uniti, è questo lo sbaglio./Felici e buoni. Il punto è questo". Da una parte lui odia l’ipocrisia, il teatro quotidiano della falsa armonia, la rimozione o edulcorazione dei conflitti. Dall’altra aspira a essere “buono e felice”, ad avere una famiglia veramente unita e armoniosa. Di chi è la colpa? Ho l’impressione che Luca raggiunge una qualche maturazione quando scopre che le colpe non vanno cercate negli altri. La famiglia implode soprattutto per una ragione: lui le chiede troppo. La sua richiesta d’amore –agli altri, al mondo– è smisurata. Non è affatto un sovversivo. Casomai un tradizionalista ferito a morte, un familista deluso. Il testo è scritto come un poema-rap, con una espressività marcata ("gli scalini delle scale piangono sotto i miei anfibi lucidati"), ma –ci perdoni l’autore– qua e là affiora un lirismo sentimentale e assertivo che ci ricorda il padre ("La vita. Cono salato"). Tutto è poi gridato, iperbolico, in un libro volutamente sgradevole. Una personalissima cadenza ritmica si impone alla lettura e la fa vibrare. Il suo limite letterario consiste nell’essere poco variato. Nelle pagine più sognanti o dolcemente effusive o perfino utopiche (una delle utopie dell’autore? Essere “ultrà buoni”) il ritmo non cambia abbastanza. Va bene che il protagonista è adrenalinico. Ma non è soltanto adrenalinico. Mi sembra invece che il tono concitato, rabbioso, la sintassi uniformemente percussiva, si estendano per forza d’inerzia a tutto quanto.