Franco Fortini, Breve secondo Novecento

11-08-1998

Franco Fortini, un polemista al microfono svizzero, di Attilio Lolini


Com’è una prosa placcata d’oro che, per di più, odora di dente cariato? Basta leggere una pagina, datata 1924, di Roberto Longhi, dove le ombre si rimpiattano nel greto: «finché vi trapeli qualche rara cediglia di luce». Ma anche verso la metà degli anni trenta il granduomo solfeggia di prati che: «si tramutano d’incanto in bordi di alto liccio, i boschi dei feudi lontani si decalcano sur un firmamento ormai tutto percorso e vergato, come una gran barda» ecc. È un ritratto, quello del grande storico dell’arte, rapido e sulfureo, compreso nella galleria di Breve secondo novecento, un libriccino postumo di Franco Fortini che ora Piero Manni e Lupetti ristampano, con una nota al testo di Luca Lenzini.

I trentasei profili in «corsivo» furono concepiti e scritti per Radio Lugano dove il poeta di Questo muro li lesse da per suo nei primi anni ottanta e hanno, davvero, la rapidità e la concisione della «scrittura» radiofonica; d’altra parte va detto che Fortini, più che un lettore, era un vero attore, e non solo per i suoi testi; recitava Dante e Tessa, Carducci e Campana, Milton e Leopardi assai meglio di un Gassman, d’un Albertazzi e finanche di Carmelo Bene.


Alcuni «nastri», ora nel fondo fortiniano della Facoltà di Lettere dell’Università di Siena, curato da Giuseppe Nava e Luca Lenzini, ne sono testimonianza, specie i versi sublimi del combattimento di Tancredi e Clorinda de La Gerusalemme liberata del Tasso, il poeta che Fortini amava sopra ogni altro.


Come si farcisce un «pezzo» giornalistico e non? Non ci sono problemi, basta rivolgersi ad Alberto Arbasino, uno scrittore il cui «sistema di riferimenti e di allusioni è destinato a diventare muto o bisognoso di note filologiche-storiche nel giro di pochi anni». Fortini cita, di Arbasino, un articolo scritto per la morte di Gian Giacomo Feltrinelli, notando che in tre righe riesce a metterci dentro Via col vento, una banda di paese, pollo e salsicce, Wally Toscanini e Gadda. Eroe della futilità, recita Fortini, sembra sempre avere in serbo il «viva la morte» che gridano i protagonisti alla fine del quarto atto di Andrea Chenier. Ma gli riconosce d’avere un orecchio quasi infallibile nel cogliere i mutamenti nella lingua conversativa dei ceti medi e medio-alti.


Verso la metà degli anni ottanta Fortini, sempre in sotterranea polemica con l’editoria ufficiale, pubblicò un numero rilevante di plaquettes per lo più «affidate» a compagni volenterosi ed anche i «pezzi» di Radio Lugano vennero riuniti per un libretto intitolato Breve secolo; quattrocento copie da regalare agli amici ma non ai critici, avendo egli in uggia le recensioni che gli parevano tutte uguali, senza spessore o sostanza. Anche il volume, pubblicato da Scheiwiller nel 1987 Versi primi e distanti lo regalava solo a chi gli prometteva, solennemente, di non recensirlo.


Il progetto di questa edizione, che poi non andò in porto, giunse fino alle bozze, corrette dall’autore nelle lunghe serate senesi, motivo costante di discussione nella «viltà» dei dopocena tra letture di versi e discussioni di politica; ad un certo punto Fortini stabilì che quei contemporanei erano, a suo avviso, troppo contemporanei, per non dire dei defunti che pigliano cappello per un nonnulla. È anche probabile che lo scrittore volesse inserire alcuni «corsivi» di Breve secolo in qualche vagheggiata nuova edizione de L’ospite ingrato, insieme ad epigrammi sempre più lapidari e fulminanti (rimasti inediti) come il micidiale brano su Manganelli che sulle sue prose, come per il vino del Chianti, metteva il bollo dell’origine controllata.


Tutta la ricchezza delle geniali invenzioni verbali di Manganelli presuppone, per Fortini, un lettore-spettatore non molto diverso da quello che si immerge nei piaceri della pubblicità televisiva. Cita un mirabolante passo dello scrittore (sulla propria madre sistemata in un bicchiere verde) per rilevare il fasto, ma, soprattutto, lo spreco di questo autore che non si mette mai in discussione, fors’anche per un attimo, producendo la fatale monotonia che deriva dall’ossessione della perpetua sorpresa.


Mentre a Sanguineti, che lo aveva escluso, (insieme a Zanzotto) dall’einaudina Antologia dei poeti del Novecento, rimproverava non tanto di identificarsi (il suo nome) con quello della neo-avanguardia ma la sua posizione politica ufficiale di parlamentare, per così dire, «normalizzato», la sua ironia depressiva tra crepuscolarismo, comunismo e liberty.


Di ben altro tono il brano dedicato a Pier Paolo Pasolini nella cui poesia, per Fortini, si conflittano due Novecento, quello dei versi giovanili friulani, alla Verlaine, e quello che, partendo da Le ceneri di Gramsci, ha voluto essere «una poesia tutta orizzontale, iperprosastica, anche quando riattizza i vecchi fuochi dell’aggettivazione da prosa d’arte (...) fino alla volontà di distruggere ogni residuo canoro, come: ‘Caro ragazzo, sì, certo, incontriamoci/ma non aspettarti nulla da questo incontro’».


Anche un minimo campione prelevato dalla poesia di Pasolini -dice Fortini- ci mostra, nello stesso tempo, l’eredità della nostra coscienza letteraria uscita dalla guerra «quanto l’orribile distruzione personale e collettiva attraverso e con la quale egli ha vissuto gli ultimi suoi anni».


Il sogno pestilenziale di una piccola e media borghesia colta mai saziata di sublime diventa, per Fortini, una specie di incubo insieme al suo aperto disprezzo per -come dire?- le tentazioni «riformiste» ed elegiache dei poeti italiani che lui può anche stimare ma non amare; da qui il sottile risentimento che traspare da questi scritti, anche largamente positivi, su poeti e narratori a lui vicini, con l’inserimento di vere perfidie travestite da complimenti. Tanto che nell’Appendice seconda, Todos caballeros (giustamente reinserita da Lenzini) scrive che ormai non ci sono più esclusioni, son tutti cavalieri, tanto se combattono draghi o vanno a caccia di lucertole. Scuola, università, editoria, assessorati alla cultura, convegni e dibattiti: «Il ronzio della macchina altera o copre la pronuncia dello scrittore e del poeta, vivi solo per la minima frazione di tempo o ben composta tra le bande e gli aromi funebri delle antologie o della archeologia universitaria».