Un’intermittenza della natura, di Luca Viglialoro
A vent’anni esatti dall’uscita di Elegiette berlinesi, il suo primo libro di poesie, dopo una duplice escursione nella scrittura drammaturgia con L’incontro e Berlinturcomedia e due prove narrative, Autobiografia dei cinque sensi e Investigazioni su un castello, Franco Sepe si presenta nuovamente al lettore in veste di poeta con Elegia planetaria.
Suddiviso in due parti – la sezione eponima, un corpus piuttosto compatto, consta di 65 liriche, tutte numerate; la seconda, intitolata La notte all’ordine del giorno, più disomogenea, ne comprende 31, non numerate e prive di titoli – il libro di Franco Sepe, prima d’essere il dettato di un’occasione poetica, di atmosfere sensibili portate a rappresentazione, è il documento di un’intermittenza della natura. Senza attestarsi su enfatizzazioni o analisi raggelanti, ogni componimento si scandisce bipartito tra un’ipotesi di significazione del paesaggio – che mette insieme e dà misura a persone ed eventi – e viaggia su ipermetrie e ipometrie di endecasillabi – o, più raramente, settenari – si assesta su una sospensione finale presentata da versi di congedo, quasi che la poesia cadesse improvvisamente nel nulla: «Intorno alle molecole umane / polveri minute dettano legge» (p. 55). Rientra in gioco così un altro componimento, elaborato per andare sino in fondo alla natura e disperdervi all’interno le parole, che si immergono nella frattura del non-senso. Alcune di esse dovranno serbare la forza di un monito impotente in sua difesa: «E osservare la chiara / intristita del lago fa venire / da piangere in un pugno» (p. 26); altre dovranno cantare se stesse, nella speranza che il tempo le trasformi da eco disperse in melodie tramandabili: «Versi appesi alla gracchia / in attesa di stagione per uscire. // Nessun indizio certo / qualcuno li porterà. // Per farli vedere / per farli cantare» (p. 104). Si va, allora, definendo una dialettica tra ambiente e poesia- il cui verso, se è onesto, «la natura non offende» (p. 17) – che cerca di rendere giustizia alla polifonia inesauribile della natura. I gesti di comprensione sono affidati ad una lingua piena di suggestioni, caricata all’estremo della sua polivalenza, ami lasciata accanto alle cose, ma in esse confitta e resa precaria. Dal binomio vita-morte, in cui la seconda sembra voler anticipare la prima, si palesa un impossibile, una rivelazione della violenza con cui ogni disastro ecologico viene accelerato. In un’ironia veicolata per antifrasi e che evita ogni didascalismo, leggiamo un potente biasimo sub specie poiesis all’attuale sviluppo della situazione politica globale, deputata a sommergere le necessità che non rientrano nei piani di accumulo di capitale per arricchire i potenti.
XXXV
Non più di qualche miglia
metropolitana
distano le potenze del mondo
convocate per il disbrigo
degli affari ambientali.
Di chi impera è torvo
il diniego: la vita ha peso
in barili,
il bene del corpo
dovrà ancora battere moneta.
Che vengano da un altro
pianeta? (p. 39)
l’idea di salvaguardia del mondo in cui viviamo, in quanto anch’esso Lebenswelt, non può che impegnare anche la poesia, che – per Sepe – non combatte contro qualcosa, non è engagé, ma a favore di ciò che si sottrae al calcolo, vicina ai sommersi e salvati della storia, ai non-detti. Marginale, angolo di incidenza di un’alterità che si nega a qualsiasi tentativo di strutturazione – tanto logico quanto testuale – eppure fonte di un’irrevocabile dedizione al dovere di dare senso. È nel segno di questa ricerca che si apre l seconda parte della raccolta, La notte all’ordine del giorno, che sembra voler descrivere le conseguenze del disfacimento della natura sull’individuo. Dei cinque sensi a subire il trauma maggiore è senza dubbio la vista, che mette a fuoco solo con grande fatica, quasi soffrisse di una miopia che la impegna a raggiungere maggiore nitidezza, socchiudendo poco alla volta le palpebre (1).
La visione non si dà tramite gli occhi, ma con tutto il corpo che, in una concentrazione sintetica, produce l’immagine adeguata dell’(auto)disgregazione, una perturbante autoscopia che può rimbalzare anche sul concetto di vedersi vedersi di Valéry. Ad essa, la pagina offre una resistenza di parole, figure, segni, una «visione impura», partecipabile solo con gli «occhi della mente» (p. 80-81), e pertanto la restituzione di uno sguardo di «irrorante progettualità» (Zanzotto). Corretta, dunque, l’osservazione di Alessandro Baldacci nella postfazione: «Partendo prevalentemente da dati concreti, sensibili, la poesia in Elegia planetaria si sviluppa secondo un poetare volto ad estendere il sensibile tramite un arricchimento metaforico della percezione e del ragionamento» (p. 107).
(1) Perciò, nella prima sezione, troviamo questo componimento dedicato a Valerio Magrelli: «Dietro palpebre fonde / ora rimiro una luce a grani / nello spioncino dell’occhio. / Serra brulicante lapilli / dentro il buio vivo, squama / retinale otto il fuoco / del sole» (p. 28). In queste righe, la duplice occorrenza della parola «serra», così come l’idea della clara et distincta perceptio del sé raggiungibile solo con l’indebolirsi delle funzioni vitali, ci fa comprendere come Sepe abbia a cuore soprattutto la prima raccolta di Magrelli, Ora serrata retinae, la quale pare tornare anche nel primo componimento della seconda parte: «Porto con me il mio corpo / come una barella. Vi ondeggio / sopra, ventaglio aperto / un modesto abisso - / cannocchiale puntato / su me stesso» (p. 73. versi che si gemellano a queste righe da Rima palpebralis, la prima parte di Ora serrata retinae: «Il corpo è chiuso come una muraglia, / è come un pozzo immerso nella carne / che non giunge ad avere / impressione di sé. / E le sue membra stanno / mute e cieco e fermo / nella gamba riposa il ginocchio» (da V. Magrelli, Poesie (1980-1992), Torino, Einaudi 1996, p. 35).
Nota
Nella discrezione con cui le parole, scandite dalla natura, offrono i propri sensi a chiunque voglia recepirle, c’è però di più. Nell’«umanesimo risentito e partecipe» (sempre da Baldacci) di Sepe, così estraneo a qualsiasi violenza verbale o «vuoto rotolare di sillabe» (Bachmann), mi sembra di intravedere una «redenzione profana», un tentativo di salvare i fenomeni con un canto che sia fragile come le foglie. Accecati gli «occhi mondi», indebolite le gambe, il tentativo di dare pace a ciò che è straziato dal decadimento è affidato ad un verso, forse quello di una stella morente: «Mentre acceca lo sguardo / un riposo inatteso di luce / la parola uscita / dallo sforzo di un sussurro / si fa largo tra la calma / degli orecchi» (p. 76).