Giacomo di Witzell, Come dentro la notte

01-05-2008
Un Joyce ligure, di Piera Mattei
 
Ho letto questo libro tutto in un pomeriggio. Come succede d'estate, quando la città ha diradato le sue presenze e la strada si fa silenziosa, l'ho letto senza cercare o accettare distrazioni, presa dalla qualità della scrittura, dall'essenzialità psicologica che non nasconde la fondamentale qualità metaletteraria. Immersa in quella lettura scorrevole, intelligente, vagamente malinconica (queste sono le qualità più evidenti) mi sono lasciata guidare per le strade e i luoghi di un'altra città, Trieste, che conosco bene e sento un poco anche mia. San Giusto e l'Orto Lapidario, piazza Goldoni, piazza Oberdan, il Canal: un personaggio si aggira in questi luoghi, interrogandoli, interrogandosi, cercando forse una presenza lontana, ricordando l'infanzia, altri luoghi.
Le persone che il protagonista incontra somigliano a fantasmi joyciani. Il fantasma stesso dell'Ulisse grandeggia su questa avventura d'una sola notte: “Come scaricata da un bastimento alle pendici carsiche, inizia la scomposta banlieu dublinese, vita sanguigna che pullula di merci, di popoli, di fedi...Un mondo smorzato nella nebbia, negli occhi offuscati e sofferenti del professore d'inglese che spalancò finestre disegnando le mappe del suo viaggio infinito”.
Ecco: mi pare di riconoscere l'ispirazione nel progetto di ripensare Trieste quale la vive un Joyce ligure, camminando da un quartiere all'altro, passando da un pensiero, a una riflessione, a un ricordo. La città appare immobile – non perché lo sia in sé – come effetto di quello sguardo miope e lontano che fa da guida al viaggiatore attuale. I personaggi hanno tutti una fisionomia riconoscibile. La prostituta che attrae il protagonista può ben essere africana, come non ce n'erano a Trieste nel primo decennio del secolo, da una macchina in transito possono ben uscire note di una musica rap, l'argomento affrontato con un misterioso e affascinante interlocutore al bar possono ben essere le foibe e la loro capacità d'inghiottire uomini, odii e destini durante e dopo le guerre, ma i sentimenti, i caratteri, le liturgie delle bevute conservano un tratto antico, archetipico, joyciano appunto, come in una moderna pacata Odissea.
Francesco Macciò ha avvolto la narrazione in un doppio involucro, il racconto del protagonista e la scrittura del suo casuale interlocutore, per sospingerci verso una doppia, se non duplice straniazione, sia dal modello letterario che dai particolari autobiografici. Un mondo smorzato nella nebbia, appunto, anche se a Trieste la bora difficilmente la lascia stagnare. La nebbia è nello sguardo di un sognatore, che parla tra sé, che parla al primo che incontra, come un santo bevitore crea nell'incontro casuale il personaggio, il confidente e l'amico.