Giacomo di Witzell, Come dentro la notte

01-09-2008
Un itinerario notturno, di Francesco Filippi

Un libro, Come dentro la notte, il cui titolo e autore sono posticci, frutto di un tentativo di completamento, così come la narrazione stessa, che, nonostante si concluda nell’arco di una notte, sembra rimanere sospesa, come l’identità vaga dell’autore. Il curatore sembra averlo incontrato quella notte stessa, ma di lui un po’ si ricorda, un po’ no, come se questo libro già nel suo farsi e comporsi fosse immerso in una notte. Così ci ritroviamo a viaggiare insieme a un uomo-fantasma, che pur essendo incerto nel suo peregrinare viaggia concretamente da un luogo a un altro di Trieste, città poco conosciuta, malinconica e attraente.
 Tanto che ha richiamato l’autore stesso, che si dichiara non di quel luogo, a ripercorrerne itinerari personali di un passato impreciso, e a lasciarne una testimonianza anonima con questa opera. In questo tragitto, da un monumento a una piazza e poi a una chiesa, da un bar a un altro, si va in un minuetto, come dice la nota iniziale, ad assaporare le ore migliori della città, i suoi luoghi tipici ma anche angoli inconsueti, in un assetto narrativo discontinuo ma gradevole. Insieme al percorso e al tempo della notte si sovrappongo diversi piani temporali di questo viaggio personale, differenti sequenze spaziali, il ricordo della ragazza slovena amata dall’autore. E anche episodi al limite dell’onirico, come l’incontro con la padrona delle prostitute, che accompagna l’autore alla ricerca di una sostituta da amare in un viaggio che sa di un intimo e familiare inferno od oltretomba.
Sin dall’inizio, con la rievocazione dell’accoltellamento di Winckelmann a Trieste e dell’accostamento della città alla Dublino di Bloom, si distingue il clima sospeso, in penombra e a tratti sognante del racconto, in una città di confine che adesso pare più dispersa e sola di prima anche se i confini non esistono più. In questa semi-oscurità l’autore-personaggio si muove tra altri personaggi anch’essi un po’ dispersi che introducono vari argomenti, figure secondarie, stanche e fastidiose, come gli avventori notturni di un bar, oppure vivaci come i “regolari”, gli anziani, i giocatori di scopone scientifico, su cui l’autore imbastisce una allegoria esistenziale. Lentamente, nel racconto sembrano aprirsi spazi aperti da questi luoghi chiusi, conversazioni, stimoli, chiacchiere: come l’autore dice, Trieste è una città di orizzonti che si dipartono da luoghi angusti.
L’incontro con questa umanità notturna sembra dare un quadro coerente della città. Ed è nel colloquio con il Conte, il futuro curatore, che la vicenda poi si snoda, riempiendosi di nostalgia per la città e il Carso che era, così come l’autore va alla ricerca con rimpianto della sua amata ormai come una immagine mitica. La conversazione si allarga dipanandosi mentre sta per arrivare l’alba. Questo incontro, insieme alla fine della notte, ha qualcosa di liberatorio, e l’autore, un poco inebriato dall’alcool, sembra godersi questa liberazione mentre, finalmente sul Canal, si gode la prima luce del mattino. La città diventa un tempio fantastico mentre egli rievoca in maniera conclusiva l’incontro con la ragazza slovena: tutto è finito, anche se tutto magicamente sospeso, anche se in lui resta l’umidità della notte. Così si chiude, in mezzo alla pioviggine mattutina, il lungo itinerario notturno, e con esso il racconto.