Giancarlo Sissa, Il bambino perfetto

01-12-2008
Scavare, lentamente, di Matteo Fantuzzi 
 
La prima sorpresa per chi conosce la Poesia di Giancarlo Sissa (a mio parere davvero, per citare una delle espressioni più famose di Marco Merlin, uno dei maggiori esempi di quella generazione nel limbo che è quella dei nati attorno al 1960, così poco strombazzata ma così importante per gli ultimi decenni della nostra poesia) è il notare, appena aperto il libro, che l’autore ha deciso di compiere il “salto”, di virare insomma verso la Prosa Poetica: un percorso naturale quello del poeta di Mantova trapiantato a Bologna, che già aveva dato ampi segnali di questa svolta nel Mestiere dell’educatore ad esempio, ma anche in Manuale d’insonnia, con un discorso sempre più prosastico, sempre più portato a fare emergere la “voce interna” della Poesia. Se finora tutto questo era presente ma in un certo senso latente, oggi al contrario il lavoro è dichiarato: Il bambino perfetto racconta lampi, estratti di vita, intersezioni di eventi. L’impianto del libro ricorda in un certo senso il lavoro che si compie sul lettino dello psicologo, lo individua giustamente Antonio Prete nella Postfazione, indicando che «il passaggio non è verso la smemoratezza, ma verso un lento scrutare il mondo di ogni giorno per cogliere i segni di un altro cammino possibile» (p. 77). Il lavoro di Giancarlo Sissa è insomma quello di scavare, lentamente: come fa l’acqua piegando la durezza della roccia, così Sissa con la “lentezza” della Poesia riesce ad entrare nelle cose comprendendone il senso.
Va anche considerata nell’economia del libro la propensione che deriva dal lavoro e dalla formazione dello scrittore (vedasi anche in questo senso appunto il già citato Mestiere dell’educatore) abituato a concentrare le proprie attenzioni sull’età evolutiva, quasi a sancire l’evidenza ormai universalmente condivisa che gli elementi accaduti nell’infanzia finiscano inequivocabilmente per condizionare l’età adulta: alla fine questo bambino, perfetto, raccontato da Sissa non finisce per essere altro che il futuro “uomo perfetto” quello che la società, i media ecc. continuano inesorabilmente a richiederci così che a buon diritto questo lavoro può essere definito come “prosa poetica di formazione”: «Ogni notte fingo la neve. Anche l’insonnia è un esilio, dove immagino incendi furiosi di vecchi quaderni, debiti incolonnati a matita, odori d’osteria, il respiro che ammala il cervello. La ferocia delle mani cerca i fianchi, l’agendina sudata nella tasca dei calzoni. Un umido labirinto di disgusti, il muro fossile del dolore» (pp. 55).
La formazione però non porta alla perfezione, anche perché di mezzo c’è il territorio e c’è la società, che è in qualche modo il teatro di figure drammatiche e disperate, sole incattivite, le quali si pongono davanti al protagonista rendendo atroce la sua vita. Uniche soluzioni per alleviare le sofferenze procurate da questo mismatch rimangono la Poesia da una parte (che come già in molto Novecento viene inquadrata come prospettiva di “salvezza”) e il rifugiarsi dall’altra verso le cose quotidiane, verso le cose semplici della parte bella dell’infanzia, verso l’innocenza che necessariamente non può essere della fase adulta. Il bambino perfetto in sostanza non può essere un adulto nel mondo degli adulti, ma per rimanere puro, per non compromettersi l’adulto si deve rivolgere altrove, deve guardare indietro: «Fuori la città è il carapace assurdo d’un granchio spolpato da tempo immemorabile. Orgoglio e cordoglio defluiscono come acque nere dalle strade sommerse. Restano fango e marcite macerie. Le asciugherà il fuoco del sole, farà monumenti della nostra miseria, fotografia satellitare del disastro, canali di disperazione, uova sulle colline attorno» (p. 72).
Da questo viaggio compiuto dal protagonista nella polvere presa a piene mani e respirata a pieni polmoni, conscio di tutte le problematiche che questo comporta, delle sofferenze fisiche e mentali che questa scelta causerà, deriva una descrizione privata ma estremamente dura della società contemporanea, vista in qualche modo con una tecnica “di rincorsa”, che non si focalizza sulla presente, ma che ricerca nel passato l’evoluzione delle vicende che hanno portato allo stato attuale. In questo il verso prosastico aiuta sicuramente.