Quel bambino che sa salvare l’uomo dalla desolazione, di Guido Monti
Il nuovo libro di Giancarlo Sissa Il bambino perfetto (Manni, 2008, pagg. 80, euro 11), pur seguendo uno stile narrativo, è in verità una vasta visione, svolta in frammenti, in una "prosa poetica" moderna, libera, coinvolgente. Si tratta di una storia in cui il protagonista sembra un "fantasma" che ansima e sfiata ad ogni suono, ad ogni fermata del viaggio. Il fantasma, tremendo, proviene da tempi diversi per sussurrarci alcune parole. “Silenzio” è la prima, insistente, ma si tratta del silenzio deteriore, di ritorno, prodotto dalla società del profitto, utilitaristica, in cui prosperano le disuguaglianze e le grida di rivolta non hanno più voce. E la democrazia lentamente sembra morire: “.. (in silenzio o sottovoce si decide chi non avrà scampo)”, dice il poeta. Tutti i morti, per sostanze o ideologia, degli anni Settanta/Ottanta, sono stati margini indifesi dell’enorme abisso di solitudine prodotto dal consumismo sempre più estremo: “… ma il silenzio si paga sempre: il più vile strumento del potere, l’altra faccia della paura”.
Poi, un’altra parola è fondativa di vita: Tutte le altre, col loro carico d’inconsistenza, dicono comunque un po’ della discesa nel sottosuolo; tronfie di trame, spesso slegate dal reale, non avrebbero cittadinanza, se non ci fosse quella che racconta la vita dura di lavoro degli ultimi. Tale parola è appunto “mani”. “…Ecco mi fermo un attimo sulla parola mani - …- che se togli la parola mani, nessun’altra ne esiste - ..”. Per Giancarlo Sissa, la parola che spiega la vita, fonda il pensiero. Il pensiero si forma dalla sua udibilità. Ecco due passaggi esemplificativi:
Dalla sezione L’impostura
C’era infine, di là dalla città intera e sporca e ammorbata, e di
là dal sottopassaggio della ferrovia extraurbana, un vialetto di
ciliegi, campi venduti da un lercio contadino per l’edificazione
di case per anziani, piccoli condomini della morte….
***
Così rideva il bambino, a giocare con un mitra di plastica,
due mattoni, una pallina. Non sa di essere vivo. Fra poco lo
chiameranno per tè caldo e pane….Domani verrà il nonno a spaccare
legna per la stufa, gli chiederà di aiutarlo, accetterà un bicchiere
di vino rosso con la buccia di limone, sorriderà senza togliersi il
cappello…
Altro respiro difficile del fantasma, altra parola: “neve”. Questo elemento essenziale della natura traversa i luoghi, si poggia sulle cose naturali od umane, rendendole come remote, anteriori e al tempo stesso piene di un oggi tutto da interpretare. In essa il poeta pre-sente la poesia. Il fanciullo di ieri formava il suo potenziale percettivo., mentre il tempo passava e lo spirito acquisiva segni di conoscenza. Inverno quindi come paesaggio d’attesa e silenzio, che si fa guardare e ci guarda, interrogando. Il freddo della neve, percepito nei versi nel potente biancore, avvicina l’adulto odierno e il bambino di ieri, il pewnsiero attuale e il gioco di ieri. L’andare lungo le vie desolate delle città rinnova l’interrogazione labirintica del transito esistenziale: “..E casa si chiama quel luogo dove nel tempo si tenta di rinascere..”. Il paesaggio urbano, che passa come diapositiva nel libro, diventa quasi uno specchio di alienazione, per il repentino suo caricarsi e svuotarsi di memoria. C’è quindi una città psichica, muta, in cui talune raffigurazioni si svolgono nella totale assenza di suono, immagini in apnea, che rimandano ancora al luogo mentale della mancanza o della distanza: “..Ora nella luce del giorno nuovo hanno iniziato a vivere uomini tristi….Le sindoni di cenere sul cemento mormorano la loro immobilità”.
Dalla sezione Il seme del disordine
Come generazione ci hanno insegnato a detestarci - così il
senso di colpa diventa ideologia -. Forse l’odio non bastava.
Dovevamo contribuire come ciechi al loro buio, morire in silenzio
d’eroina o altro, tutti chiamati a collaborare alla catastrofe
come chiodi conficcati nelle assi del patibolo. E nemmeno morire
è poi bastato. Nemmeno alla morte hanno creduto…
Esiste però un’altra città, quella urlata, violenta, che con i suoi conflitti, le miserie, le violenze palesi o striscianti, è il luogo della caduta finale, diviene il non luogo. La rappresentazione del degrado edilizio, dei soldi facili, non lascia quasi speranza: “ …Piazzali vuoti di camion, sterrati di fabbriche e officine, monumenti di desolazione, giardinetti fra le pagine del progresso industriale..”. Il camminatore-poeta è testimone oculare della contaminazione, dell’umiliazione, del disfacimento, della disgregazione del paesaggio (l’oggetto dello sguardo) e della mente (il riflesso della visione che annulla le vecchie sicurezze nel futuro). C’è dietro tale procedere la lezione delle illuminations di Rimbaud, certo allargata a sbigottimenti e sfumature tipiche del nostro presente: “…La città rode le sue vecchie gengive. È un impostore, vedeva tigri sul soffitto, stirpi d’infamia”. Durante l viaggio nella periferia, i bar divengono finestre, centri di ascolto e visione privilegiati per conoscere il fuori, sentito, presentato, catalogato come luogo estremo della diseducazione sociale: “..Restava affacciato alla porta del bar come sul limitare d’un bosco..”. La volontà del poeta sembra perdersi in questa terra intossicata: “..Il nulla è il vero suono del mondo”, ma poi è come se riuscisse a ritrovarsi nello “slancio muto” del fanciullo, che come luce perfora l’enigma dei giorni: “ lo stupore d’una bicicletta lanciata nel vento, il cielo d’infanzia senza insulto, …”. Il gioco è semplice e anche crudele: per vivere, per sopravvivere, il poeta cerca e trova il vanale di ritorno al tempo dell’infanzia e riprende per mano quel bimbo che sapeva sorridere. “… - il bambino si pianterà schegge di legno nella pelle della mani, starà attento ai chiodi, si sentirà grande imparando a tacere la stanchezza..”.
Dalla sezione Il bambino perfetto
…..E cammino- l’infanzia
stretta per mano- e dico al bambino: sono venuto a prenderti
nell’insulto, sono il futuro del tuo quaderno. Scriviamo- io
non so ballare ma ci penso continuamente- perché assieme
noi siamo il bambino perfetto.
La denuncia sociale in Giancarlo Sissa corre parallela all’intimo sentire, con metafore e simboli. Così l’ombra si schiarisce, in una fusione liquida di chiaroscuri umorali, ed è possibile la faticosa ma necessaria risalita dall’abisso: “… e le grida degli ubriachi in uno schiaffo di vento. È in povertà che io conosco”. Nell’alternarsi di smarrimenti ed euforie il poeta trova ancora una sponda da risalire insieme con quel “bambino” che si porta dentro e che alla fine lo allontana da ogni altro proposito negativo".