Un travet di provincia fiero di sé, di Linnio Accorroni
«Me ne esco con dei giudizi così taglienti che fanno venire a chi li sente, me ne accorgo da come mi guardano, la voglia precisa di menarmi e a lungo. Questo solo perché uso quasi sempre la forza urticante del paradosso. La vocazione al paradosso mi porterà dritto dritto in ortopedia. Lì hanno modi un po’ ingessati e lo usano per prevenire e per proteggere. Lì lo chiamano paraosso.». Mi sembra che queste poche righe estrapolate dal secondo romanzo di Giancarlo Tramutoli valgano, nella loro icastica referenzialità, quale perfetto esempio di pars pro toto, una specie di sineddoche narrativa nella quale sono sintetizzati i temi portanti di questo piacevole romanzo: c’è l’elogio del paradosso, c’è l’irriducibile antagonismo del protagonista rispetto alle idee ricevute e alla disgustosa volgarità della comune opinione, c’è il gusto irrinunciabile per il ludus linguae, quasi mai fine a se stesso, ma sempre allusivo di una percezione altra, più profonda e meno banale, della realtà del mondo e delle comparse che si agitano sulla sua scena. Qui peraltro abbastanza limitrofa e marginale quale è quella potentina. Lì, si svolgono le giornate di un intellettuale umorale e bizzoso che enuclea, attraverso la vivace cronaca di un’esistenza fieramente antiepica, difetti, vizi tabù, limiti di un’Italietta patetica, moralistica, iperconsumistica e grossolana.
Il protagonista che usa con spregiudicata nonchalance l’impegnativa prima persona singolare srotola in questo libro le idiosincrasie e tenerezze, le bizzarrie e le amenità di un travet di provincia che, paradosso dei paradossi, è fiero di essere tale. Infatti sin dal titolo sbandiera orgogliosamente la sua qualifica professionale, quella di «uno che conta» nella banca dove lavora, ma che vorrebbe «contare» anche nella vita. Il titolo perfidamente ambiguo va inteso nella sua accezione più letterale e materiale (l’io narrante è un banchiere) sia in quella più metaforica, inferente all’inatteso successo letterario: una risma di aforismi intitolati, con tipico Tramutoli Touch, “Lampadine” sulla spiaggia della cultura del Corriere nazionale. A pensarci bene, un warholiano quarto d’ora di celebrità che all’autore, in fin dei conti, procurerà più fastidi che vantaggi. Se la scena iniziale sulla quale si spalanca questa cronaca di una vita sa un po’ troppo di dejà vu (il suicidio del protagonista con liberatorio squillo del telefono che consente la stesura di questa cronaca fra il diaristico e l’aforistico) per il resto del libro non si può non provare affetto e persino struggimento per le vicissitudini esistenziali del protagonista: un dongiovanni tendenzialmente monogamo, un epicureo ascetico, un misantropo curioso della vita e di tutte le sue sfaccettature, se non altro per il gusto incontenibile di metterla alla berlina e farne oggetto di calembours e salaci aforismi.
La sua è una esistenza vissuta tra routine e creatività, tra pathos ed humour, con fragorosi passaggi dal paradosso al grottesco, rigirandosi tra idiosincrasie e passioni, soprattutto muliebri. La ricerca della donna che ondeggia fra un petrarchismo fuori tempo massimo e la ossessione per peculiari pratiche sessuali è un altro dei motivi che domina tutta l’opera. In questo senso, forse le pagine (e sono davvero poche) che più attendiamo sono invece quelle legate ai sdilinquimenti ultrasentimentali che il protagonista nutre per la sua ultima fiamma: tanta profusione romantica, ai limiti della sentimentalità, appaiono «fuori registro» e dissonanti rispetto al tono medio di un romanzo la cui forza consiste soprattutto nel sogghigno, nel sarcasmo, nello scialo di un’ironia corrosiva ed urticante.