"Versi pure, grazie" in un bel gioco di rime, di Lorenza Colicigno
Se ci capita tra le mani un libro di versi, se poi il libro s’intitola «Versi pure, grazie», ed è di Giancarlo Tramutoli, edito da Manni, l’occasione di lettura è davvero ghiotta. Sarà di certo possibile, infatti, e non senza qualche godimento, riversare sui versi «leggeri e imprevedibile», secondo la definizione del prefatore Attilio Lolini, una propria versione di quei versi, altrettanto leggera ma prevedibile, almeno nell’apprezzamento. Giancarlo Tramutoli è poeta che invita il lettore a fare il suo gioco, a sfidarlo nel suo gioco, che è quello di rincorrere se stesso, nascondendosi rocambolescamente tra un ossimoro, una litote, una paronomasia, un bisticcio, un calembour, un’allitterazione, etc., etc., ed anche tra tutti i tipi di rime, da quella perfetta a quella imperfetta fino a quelle baciate, anche se almeno queste ultime trattate con molta cautela per paura che «un’improvvisa alitosi / potrebbe farle morire ammazzate». Rincorrersi, perché? Per riscoprire d’essere «Al solito quietamente / disperato», o per restare «dietro il vetro / sempre più tetro», o per ribadire conm Bob Dylan che «Non è nulla cara, sanguino soltanto», o per riscoprire che «a nessun giornalista interessa / questa mia nuova poesia», o d’essere «esausto», e non solo d’agosto, mentre Arbasino non si riposa neanche «un pochino», o per trovare il modo di dire a «Luzi, Roboni e Zanzotto / sono anni e anni che mi avete rotto»? Nascondersi da cosa, da chi? Dal non essere vivo, pur se «scrivo scrivo scrivo? Dal lusso della malinconia? Dalla coazione a ripetere, nel caso del poeta, dal continuare a scrivere dopo aver decretato la fine della scrittura, dall’essere, dunque, imperdonabilmente «recidivo». Se è vero che un libro si giudica in base alla quantità/qualità delle domande che genera, non si potrà negare che l’ultimo (l’ottavo) di Giancarlo Tramutoli sia un buon libro. Il libro di un poeta che ha scoperto e riconfermato la poesia giocosa come il mezzo più efficace per parlare del nostro tempo con implacabile ironia, costringendoci di volta in volta a fare da un lato il conto delle «cazzate» e dall’altro quello delle tragiche ragioni del nulla contemporaneo, per scoprire che il conto purtroppo torna.