Gianfranco Fabbri, Stato di vigilanza

01-01-2007
Stamane la rosa è morta, di Gian Ruggero Manzoni
 
La continuità di uno scrivere nel segno della tradizione non morrà mai, come non morrà mai la figura del poeta, quando questi è fra i più veri che io conosca. Inutile, quindi, tentare di distruggere l’uomo, inutile martoriarlo, ferirlo, umiliarlo, ridurlo a semplice relatività d’indirizzo, egli sarà, sempre, nella sua voce, oppure in quegli spazi, in quei silenzi, fra parola e parola, fra lettera e lettera, come l’amore gestisce il ventre di una madre, e lo ringrazia del suo votarsi… del suo “mettersi a disposizione della e per la vita”. Stato di vigilanza, ultima raccolta di Gianfranco Fabbri, con introduzione di Nicola Vacca, edita da Manni di Lecce, è un inno al poeta e a tutto ciò che il poeta deve salvaguardare, in primo luogo la certezza dell’esserci, quindi del perdurare a dire e a dirsi, con tragedia, ma anche con salubre autoironia o con ‘leggera’ autocomprensione. Fabbri, dal viaggio nelle geografie del mondo, dove ha colto l’essenza primaria della bellezza o, meglio, della dolcezza e dello struggimento, per farne motivi d’esistenza, è tornato a indagare il proprio e l’altrui corpo, le cellule, le molecole del nostro animo, come ai tempi de Il Visceralismo, movimento-tendenza di poetica che ci vide fianco a fianco giovanissimi, negli anni fine ’70 inizio ’80, in modo da ricostruire una forma stabile nella melodia dei quattro elementi, a lui sempre cari. La sua, oltre ad essere una continua attenzione nei confronti di ciò che ci circonda, nell’oggi è divenuta, in un circolare riprendersi, movimento che dalla maturità ritorna sui primi passi, sancendoli, rivedendoli, intensificandone la profondità d’impronta. Ecco, così, che la vita appare nella sua interezza, in modo che l’umanità sia sempre in quel presente riflessivo e puntiglioso che ne sancisce la crescita e, infine, il grado massimo di conoscenza-coscienza. Lottare perché si possa ‘essere’ sé stessi nella completezza lo si può fare anche con il garbo del dire lirico, non solo urlando epicamente il proprio bisogno, la propria accusa o la propria speranza, e Gianfranco è combattente della moderazione, soldato della temperanza, milite dell’eleganza formale e stilistica. In tale maniera la profezia che nega la cessazione, il nulla, l’insalubre esaltazione della vuota materia, per evocare diafane trasparenze o gesti d’affetto che si stampano sulla carne pulsante, poi carezze sintattiche che si sfumano in uno sguardo, oppure baci strutturali che consolano il pellegrino. “Ci meritiamo, ogni mattino / l’autentico miracolo che è l’alba? / Comunque sia, l’alba si forma, / a dispetto di noi, quasi non esistessimo. / Vorrei, una volta, / intervistare la luce, / farle questa domanda: / perché sorgere / dal pelo dell’orizzonte /con tanta e simile dovizia?”, richiesta più che legittima per un poeta della e per la luce, e che, dalla luce, ricava la capacità sapienziale di darsi, poi, una decisa risposta: “L’alba è una cosa, / il sole un’altra. / La fame è un protocollo; la sete, / l’incognita equazione / di cui temi i passaggi.” Procede in questo modo Stato di vigilanza. E’ un richiamo al non lasciarsi perdere, al non abbattersi, al non delegare il vivere… al riappropriarsene nell’interezza, poi, e di seguito, è il manifesto che determina, con intelligenza, la consapevolezza che il sublime avrà sempre dinastia: “Stamane la rosa è morta. / Madida, s’è lasciata / andare sull’orlo del vaso. / / Venuto, il ciambellano ha detto: / la rosa è morta, evviva la rosa!”. Regale, sempre nobile questo intraprendere la filosofia del perenne. Angelo Silesius, poeta mistico del ’600, non avrebbe potuto delineare meglio ciò che è spirito e ciò che è contingenza. Quindi le prose in poesia dell’ultimo capitolo, che dà il nome alla raccolta. Il mettere mano davanti alla violenza, il dire basta, il vincere ogni morte, il darsi allo spazio cosmico, rifiutato un pianeta di volgari adoratori del male e del vacuo. L’ergersi a monito. Il prendere posizione. Il propugnare la pace. Sebbene l’incombenza di una catastrofe di sangue, il suggerire ben altri riti per la speranza… nel sensuale, nel giocoso, nell’amoroso: “Piluccami un poco alla volta, come se tu sbocconcellassi delle ciliegie a caso. C’è un contatore automatico dei noccioli orfani della polpa; mettilo in funzione, così saprai quante volte mi hai ucciso.”