Nella presentazione, Nicola Vacca fa riferimento a un “antipensiero che smaschera le espressioni dell’oscuro e del nascosto” conducendo “la parola verso quello che teniamo di più: chiamare le cose col nome delle cose”.
“Avvicendarsi al tempo/che conclude il suo ciclo,/è affidarsi al valore delle cose,/ad ogni giorno che Iddio/mette sotto il cielo”, (p.20). Una contraddizione questa, se è vero che il trascorrere del tempo brucia e trascolora; e si porta via tutto; i volti persino, lasciandoci lo scheletro delle cose, il loro odore di muffa. In effetti, questi versi, sembrano siglare la necessità di accettare questo nostro stato di provvisorietà; transeunti, tra un tempo e un luogo. Guardare le cose, allora, significa anche accettarne la doppiezza, l’ironia, l’ambiguità.
Chi è, per esempio, questo personaggio che si concede una giornata da donna, quasi come un rito di s/vestizione?: “Oggi è la tua giornata da donna;/vesti una sottana taffettà, a cannoncini,/che quando vai a toilette/ti fa impazzire per via della sua ampiezza/che t’impedisce di farla all’impiedi”, (p. 53). E’ la donna che non si è realizzata, precaria nel suo stato sociale, vittima sacrificale del rito della copulazione forzata?: “Altro giorno da donna;/stai nel letto, stesa come balorda,/e quando lui arriva, ti alzi,/ti appoggi al muro e ti fai prendere/con i suoi modi indifferenti”, (p.54). O è una persona che aspira a uno stato più pieno, a una normalità dello sguardo che guarda?
Questa ambiguità sensuale del libro, affascinante, nel suo procedere per allusioni, per brevi gesti concentrati come istantanee in primo piano, ha il tono di un monologo mentale, distaccato; è una freddezza necessaria, capace di raffreddare i fasti della carne e mostrarne la solitudine. E così negli inserti in prosa, alternati a versi in cui un dire discorsivo, rivela “lo stato di vigilanza”, l’attenzione alle cose, perché esse non svaniscano improvvisamente e non si tramutino in mostri.
Questo stato, tuttavia, richiede l’uso forzato di un paio di occhiali da vista, pena, appunto, la sfocatura, la perdita. Del corpo, soprattutto, che è l’altare del sacrificio quotidiano, il luogo deputato alla santificazione del dolore: “Oggi sono vestito da altare;/su di me, osservo i santi uffici”, (p.48). Ciò che fa la poesia è osservare questo compito di chiarificazione, di conservazione dei nomi. Di attenzione, nella regolazione della giusta distanza. Funzione, però, che non si può ascrivere, a mio avviso, solo alla parola che si apre totalmente al mondo. Esistono momenti nel libro che sembrano rimandare a una dimensione concentrata della lingua, più antica; a immagini totalizzanti - la rosa, per esempio, pegno prezioso della pienezza, ma anche ambiguo, realisticamente ambiguo, per l’enorme peso di significati che si porta dietro. Ecco due esempi di fiori:
“L’amabile tua rosa, oggi che è festa, ha messo il fiocco ai petali e va cantando le laudi in tuo onore”, (p.62). Si noti: laudi, non lodi.
“Il geranio, di questi tempi,/profuma tutto intorno./Rosso, accoglie legazione di insetti”, (p.43). Si noti – ambiguamente – di questi tempi.
Difficile pensare a immagini di questo tipo, pur nella loro concretezza, come alla mera descrizione bozzettistica o sentimentale di un momento. Questo modo di sentire, dunque, corteggia l’astratto, il controllo a tutti i costi della forma, che in effetti, nelle sezioni intermedie, si stempera in larghe macchie di prosa come a voler segnare un’analisi interna di tipo metatestuale: “Non riconosci più la tua voce./Ora è rauca, inespressiva e politicamente di destra…”, (p. 83) – ma il testo andrebbe riportato per intero.
Ma anche l’ironia, quell’impasse della lingua in cui i sensi vengono scaraventati nella bocca di un buffone grottesco, è sintomo di questo caracollare, di un perdersi momentaneamente, assaggiando nella bocca il gusto di una cioccolata amara, per poi ritrovarsi ancora, nel giro vorticoso della vita.
Stato di vigilanza è dunque un libro dove il peso del controllo del pensiero, della calligrafia, è il controllo sulla Storia stessa, che noi avvertiamo però nella piccolezza dei nostri riti quotidiani, con lo sfondo delle notizie date dai telegiornale, del pericolo della catastrofe, imminente e imprevista, e ingiustificata.
“Ieri è piovuto tutto il giorno
Sassi enormi, dal cielo.
Stamani sono uscito, spalare i frammenti di pietra alti fino alla scarpa. E pensare che non siamo ancora a Natale!”, (p. 82).
Il Natale come il momento in cui piovono pietre dal cielo. Forse il tempo della rivelazione improvvisa e del pericolo; come se, nella parusìa del divino, il pericolo significasse un cambiamento; la catastrofe o la minaccia del cambiamento. Che è da mettere a confronto con quanto scriveva Montale:
”Non è vero/che la Natura è muta./Parla a vanvera/e la sola speranza è che non si occupi/troppo di noi”.
Nello sfondo di questa poesia, inoltre, c’è il pericolo di un’altra morte, quella della mummificazione neoclassica della parola che non dice più nulla, che contempla solo una morte; l’ordine, il silenzio.
"Le parole ti escono
come incidenti dalla bocca,
senza lasciare un senso
che ti appunti al muro
della stanchezza, quando ascolti
un album di musica per archi (p.25)
O peggio ancora; una parola che può solo contemplare la nostra morte:
Il vaso di peltro,
vista l’oscurità che avvolge
la camera da letto,
assume posizioni da sacello,
là dove potrebbe la mia cenere
avere un giorno il suo giaciglio. (p. 41)