Gianfranco Fabbri è un poeta che conduce la parola oltre il possibile, in uno spazio mentale, non solo visibile, fotografico, chiuso. “Stato di vigilanza” (Manni, Lecce 2006) individua uno scenario doppio: quello cristallizzato da una forma, e quello immaginato (“Nebbia nei campi a dilatare / l’onnipresente; ad est, un golfo / che non si getta sul destino, / ma che resiste all’uomo, / per averne timore”). Le vicende di questo “stato di emergenza” rimandano ad un finalismo metafisico, scrive Nicola Vacca nella prefazione. Perché in effetti Gianfranco Fabbri esercita sulla realtà una “presa diretta” attraverso un segreto, un dono, un mistero che viene da lontano, che partecipa allo svolgersi della quotidianità. L’uomo non è che un tassello tra gli altri, di una verità più grande, interrogativa, ma percettibile in un immanente accadere (“Vorrei, una volta / intervistare la luce, / farle questa domanda: / perché sorgere / dal pelo di orizzonte / con tanta e simile dovizia?”). Quel dire “oggi mi sento altrove” è un responso, un dato inequivocabile per Fabbri: c’è una componente sconosciuta anche nella nostra attenzione più banale, nel leggere e nell’interpretare gli stati d’animo, le stagioni, gli oggetti; i sogni e “l’altra vita”, come titola la sezione più riuscita della raccolta poetica.