Gianfranco Fabbri, Stato di vigilanza

13-09-2007
Orecchio sul cuore, di Giovanni Nuscis

Stato di vigilanza è orecchio sul cuore espanso e volatile della vita per auscultarne il battito, le apnee, le accelerazioni; è sguardo sulla sua tangibile consistenza, sull’impalpabile essenza. E noi, leggendo, ne seguiamo la traccia di visione, la militanza di attenzione e di parola.
Ma questo, a ben riflettere, è ciò che ognuno dovrebbe fare: da uomo, prima che da poeta, e che di rado si fa, piegati sulla porzione di mondo strappata e difesa coi denti. Il poeta è colui che si assume il compito di guardare là dove altri non arrivano o dove girano la faccia. Un compito assunto non per dovere sancito, ma perché non saprebbe fare diversamente; in questo egli gioca la propria esistenza, mettendoci tutto sé stesso.
Ma “stato di vigilanza” può significare anche altro: lo stato psicofisico di chi è indenne da patologie che riducono o annullano la capacità di veglia e di attenzione  (questa seconda definizione, al pari di altre nella raccolta, è mutuata dalla terminologia medica; a partire dal titolo della prima sezione).
Proprio la capacità di veglia e di attenzione, introflesse al nostro intimo ma pure orientate all’ampio mondo in cui viviamo, non ultimo quello della poesia – e apriamo ora un doveroso inciso – è qualità ben presente in Gianfranco Fabbri, critico e operatore culturale oltre che poeta. Il suo litblog La costruzione del verso & e altre cose è uno spazio dedicato al lavoro poetico e al confronto con altre esperienze. Un impegno, il suo, prezioso ed ammirevole al pari di quello di altri poeti e narratori che fanno dono del proprio spazio e tempo alla comunità letteraria. Chi scrive è però convinto che questa apertura abbia sempre un ritorno, non solo in termini di amicizia ma per l’accelerazione esperienziale che essa comporta.
Le precedenti pubblicazioni di Gianfranco Fabbri sono: I ragazzi del Settanta, Campanotto editore, Udine, 1989 - Davanzale di travertino, Campanotto editore, Udine, 1993 - Jennifer (prosa), Fernandel, Ravenna, 1995 - Album italiano, Campanotto editore, Udine, 2002.
L’ultima raccolta si sostanzia in cinquantanove poesie suddivise in sei sezioni. In quella iniziale, Prima del radiogramma (= lastra fotografica su cui resta impressionata in negativo l’immagine radiografica - De Mauro), in un’atmosfera albale e di attesa entità polimorfe (maschi e femmine, vivi e morti) fluttuano tra luoghi fisici e stati emotivi a volte quasi impercettibili (“si vive piano, nella fessura/della scomposizione a cielo aperto”, “Quest’anima di coccio/elusa da ogni forma d’affetto,/oggi ti cerca in ogni luogo;/ avvince i tuoi nemici,”); gli uni incontro agli altri (“I bei fiori ti cercano”, “Ti aspettano i tuoi cani”), in una condizione che assurge a modus vivendi: “Avvicendarsi al tempo,/che conclude il suo ciclo,/è affidarsi al valore delle cose,/ad ogni giorno che Iddio/mette sotto il cielo. Ora/vedi, mio caro,/non sta più a noi/combattere incupirsi/per ogni nuvola che passa:/a noi conviene accogliere/di questa nube il sogno,/la forma e il peso/come fosse un trofeo.”; “Hai deciso di auscultare/la parte del cervello/che più conserva l’ambiente/nell’utero, di quando,/all’infinito,/ricalcolavi il sogno dei sorrisi.”
L’auspicio di un assetto, più che di un approdo, si coglie nei testi delle sezioni successive, a partire da Presa di posizione (“Cerca piuttosto il tuo respiro; contane le frequenze,/fa’ che l’ampiezza sua si apra/nelle curvature e conceda/su di sé la pace […]”). Assetto immancabilmente fluido ed instabile, per attriti e collisioni interne e con l’esterno (“La rivolta di te verso la tua stessa persona è l’aperta battaglia degli oggetti nei tuoi confronti.”); senza per questo escludere (“Gli oggetti, i sogni e l’altra vita”) il definirsi di elementi, l’affiorare della natura - umana o fisica - dalla sostanza acquorea in cui è immersa: “Calice, langue/dentro di sé la goccia/di un vino sconosciuto./Ormeggiano le blatte sopra di essa/con la dovizia di chi parte all’assalto.”; “Il vaso di peltro,/vista l’oscurità che avvolge/la camera da letto,”; “Oggi mi sento altrove:/ho tanto blu da inondarlo/ovunque sia possibile dipingere.” Stati emotivi s’intrecciano o s’alternano, talvolta, con rapide, incisive descrizioni, o quadri pittorici (di nature morte o assorte) affidati a pennellate di pochi versi, che finemente concatenano sfondi e atmosfere, come il fluttuare che si fa condizione oggettuale ed interiore: “Raccontami/di te; fosse soltanto/per dirmi che il tuo sangue/concluderà il suo moto dentro il cuore.”; “Satellite di me, tento di darmi/all’ignoto che passa; profeta,/accondiscendendo a gestazioni gemelle.” Atmosfere percorse da micro eventi – understatement volto a richiamarci la prevalente ordinarietà del quotidiano e della vita? – resi attraverso immagini e sequenze diafane, e che pure s’accendono all’improvviso, talvolta, rivelando metafore che aprono ad opzioni di senso: “La rosa, molto s’è lamentata/questa notte: diceva al vaso/dei suoi dolori ai petali,/di certe nostalgie, dei tempi andati.” “Nella poesia di Gianfranco Fabbri” – definito da Nicola Vacca, nella sua prefazione, un “minimalista metafisico” – “le parole escono come incidenti dalla bocca apparentemente solo per fermare sulla pagina le tracce, gli indizi e gli altri elementi da decifrare di un vissuto che scorre con i suoi frammenti presenti ma segreti”. La verità, sembra dirci il poeta, si trova negli interstizi della vita e della storia, intrisa nei suoi scampoli – piuttosto che nell’ampio e pretenzioso affresco – o dentro una vena giocosa, lieve, umoristica: “Vorrei invitarmi a ballare, ma sono timido: non oso./Avvampo. Mi sudano le mani./E’ perché mi interesso. Muoio dalla voglia di corteggiarmi, ma retrocedo sempre in me stesso senza una ragione.”
La rinuncia allo “stato di vigilanza”, per stanchezza o per ponderata scelta, ci avverte Gianfranco Fabbri, è decisione da prendere con estrema attenzione:

Hai venduto il tuo sistema nervoso,
L’hai dato
via per poco, come se fosse
qualcosa di funesto da tenere.
Ed ora?
Perfetti sconosciuti
ti hanno raggiunto
con chiavi inglesi in mano;
                   svitata ti hanno
                   la tua calotta bella:
te l’hanno aperta.
Messe dentro le mani;
tirati su
fili di sangue, melma.
                   Staccata poi la spina;
                   spenti i neuroni.
(The end)