Stato di vigilanza è orecchio sul cuore espanso e volatile della vita per auscultarne il battito, le apnee, le accelerazioni; è sguardo sulla sua tangibile consistenza, sull’impalpabile essenza. E noi, leggendo, ne seguiamo la traccia di visione, la militanza di attenzione e di parola.
Ma questo, a ben riflettere, è ciò che ognuno dovrebbe fare: da uomo, prima che da poeta, e che di rado si fa, piegati sulla porzione di mondo strappata e difesa coi denti. Il poeta è colui che si assume il compito di guardare là dove altri non arrivano o dove girano la faccia. Un compito assunto non per dovere sancito, ma perché non saprebbe fare diversamente; in questo egli gioca la propria esistenza, mettendoci tutto sé stesso.
Ma “stato di vigilanza” può significare anche altro: lo stato psicofisico di chi è indenne da patologie che riducono o annullano la capacità di veglia e di attenzione (questa seconda definizione, al pari di altre nella raccolta, è mutuata dalla terminologia medica; a partire dal titolo della prima sezione).
Proprio la capacità di veglia e di attenzione, introflesse al nostro intimo ma pure orientate all’ampio mondo in cui viviamo, non ultimo quello della poesia – e apriamo ora un doveroso inciso – è qualità ben presente in Gianfranco Fabbri, critico e operatore culturale oltre che poeta. Il suo litblog La costruzione del verso & e altre cose è uno spazio dedicato al lavoro poetico e al confronto con altre esperienze. Un impegno, il suo, prezioso ed ammirevole al pari di quello di altri poeti e narratori che fanno dono del proprio spazio e tempo alla comunità letteraria. Chi scrive è però convinto che questa apertura abbia sempre un ritorno, non solo in termini di amicizia ma per l’accelerazione esperienziale che essa comporta.
Le precedenti pubblicazioni di Gianfranco Fabbri sono: I ragazzi del Settanta, Campanotto editore, Udine, 1989 - Davanzale di travertino, Campanotto editore, Udine, 1993 - Jennifer (prosa), Fernandel, Ravenna, 1995 - Album italiano, Campanotto editore, Udine, 2002.
L’ultima raccolta si sostanzia in cinquantanove poesie suddivise in sei sezioni. In quella iniziale, Prima del radiogramma (= lastra fotografica su cui resta impressionata in negativo l’immagine radiografica - De Mauro), in un’atmosfera albale e di attesa entità polimorfe (maschi e femmine, vivi e morti) fluttuano tra luoghi fisici e stati emotivi a volte quasi impercettibili (“si vive piano, nella fessura/della scomposizione a cielo aperto”, “Quest’anima di coccio/elusa da ogni forma d’affetto,/oggi ti cerca in ogni luogo;/ avvince i tuoi nemici,”); gli uni incontro agli altri (“I bei fiori ti cercano”, “Ti aspettano i tuoi cani”), in una condizione che assurge a modus vivendi: “Avvicendarsi al tempo,/che conclude il suo ciclo,/è affidarsi al valore delle cose,/ad ogni giorno che Iddio/mette sotto il cielo. Ora/vedi, mio caro,/non sta più a noi/combattere incupirsi/per ogni nuvola che passa:/a noi conviene accogliere/di questa nube il sogno,/la forma e il peso/come fosse un trofeo.”; “Hai deciso di auscultare/la parte del cervello/che più conserva l’ambiente/nell’utero, di quando,/all’infinito,/ricalcolavi il sogno dei sorrisi.”
L’auspicio di un assetto, più che di un approdo, si coglie nei testi delle sezioni successive, a partire da Presa di posizione (“Cerca piuttosto il tuo respiro; contane le frequenze,/fa’ che l’ampiezza sua si apra/nelle curvature e conceda/su di sé la pace […]”). Assetto immancabilmente fluido ed instabile, per attriti e collisioni interne e con l’esterno (“La rivolta di te verso la tua stessa persona è l’aperta battaglia degli oggetti nei tuoi confronti.”); senza per questo escludere (“Gli oggetti, i sogni e l’altra vita”) il definirsi di elementi, l’affiorare della natura - umana o fisica - dalla sostanza acquorea in cui è immersa: “Calice, langue/dentro di sé la goccia/di un vino sconosciuto./Ormeggiano le blatte sopra di essa/con la dovizia di chi parte all’assalto.”; “Il vaso di peltro,/vista l’oscurità che avvolge/la camera da letto,”; “Oggi mi sento altrove:/ho tanto blu da inondarlo/ovunque sia possibile dipingere.” Stati emotivi s’intrecciano o s’alternano, talvolta, con rapide, incisive descrizioni, o quadri pittorici (di nature morte o assorte) affidati a pennellate di pochi versi, che finemente concatenano sfondi e atmosfere, come il fluttuare che si fa condizione oggettuale ed interiore: “Raccontami/di te; fosse soltanto/per dirmi che il tuo sangue/concluderà il suo moto dentro il cuore.”; “Satellite di me, tento di darmi/all’ignoto che passa; profeta,/accondiscendendo a gestazioni gemelle.” Atmosfere percorse da micro eventi – understatement volto a richiamarci la prevalente ordinarietà del quotidiano e della vita? – resi attraverso immagini e sequenze diafane, e che pure s’accendono all’improvviso, talvolta, rivelando metafore che aprono ad opzioni di senso: “La rosa, molto s’è lamentata/questa notte: diceva al vaso/dei suoi dolori ai petali,/di certe nostalgie, dei tempi andati.” “Nella poesia di Gianfranco Fabbri” – definito da Nicola Vacca, nella sua prefazione, un “minimalista metafisico” – “le parole escono come incidenti dalla bocca apparentemente solo per fermare sulla pagina le tracce, gli indizi e gli altri elementi da decifrare di un vissuto che scorre con i suoi frammenti presenti ma segreti”. La verità, sembra dirci il poeta, si trova negli interstizi della vita e della storia, intrisa nei suoi scampoli – piuttosto che nell’ampio e pretenzioso affresco – o dentro una vena giocosa, lieve, umoristica: “Vorrei invitarmi a ballare, ma sono timido: non oso./Avvampo. Mi sudano le mani./E’ perché mi interesso. Muoio dalla voglia di corteggiarmi, ma retrocedo sempre in me stesso senza una ragione.”
La rinuncia allo “stato di vigilanza”, per stanchezza o per ponderata scelta, ci avverte Gianfranco Fabbri, è decisione da prendere con estrema attenzione:
L’hai dato
via per poco, come se fosse
qualcosa di funesto da tenere.
ti hanno raggiunto
con chiavi inglesi in mano;
la tua calotta bella:
Messe dentro le mani;
tirati su
fili di sangue, melma.
spenti i neuroni.