Parlo quest’oggi dell’ultimo libro del messinese Gianluca D’Andrea. S’intitola Chiusure e lo pubblica Manni di Lecce nella sua collana “Pretesti”. L’autore ci riporta, con quest’ultima fatica, a certe atmosfere del suo precedente lavoro, intitolato Il laboratorio (LietoColle editore), così pervaso di freddezza linguistica e di improvvisi, quanto inaspettati, lampi carnali.
Il titolo, Chiusure, allude in modo dichiarato alla poetica di tutta la raccolta. Si inizia infatti con un poeta impegnato nell’esasperazione di rinchiudere entro le maglie del linguaggio, spurio e criptico, le proprie incapacità di confessioni dirette. I mezzi espressivi con cui questo piacere negativo si espande nei testi è attuato con l’uso di immagini ed oggetti che comunque richiamano un rinserrare lo spazio in una precisa “area di sorveglianza”. Come il laccio, ad esempio, che a pagina 9 funge da fattore di possesso nei confronti della persona agognata. Si leggono esempi di poesia “mentale”, ricca cioè di definizioni e anche di provocazioni –come il voler artatamente sciupare un effetto troppo leccato- o come l’uso, direi intenso, se non forsennato, degli aggettivi in coda al verso. Già dalla prima sezione (Svista di origine) la cifra consiste in questo scialare in spiegazzamenti morfologici. Anche in Religio, la seconda parte, la direzione studiata è identica. (“…fatica condensata / in scarti minimi / … / di un organo scardinato / rappreso e slanciato / su una trama di equilibri instabili/ …”). In “Rivoluzione” la stasi è addirittura conclamata. La chiusura concettuale propende verso l’idea di una forza centripeta, mentre i verbi “espandere” e “slanciare” ci aiutano a pensare ad una forza di segno opposto –la forza centrifuga-. Si vuole una specie di ossimoro dinamico? Un depistamento ulteriore del testo? Ecco la parte che ci ricorda questo procedere:
nella pelle di bimbo che si estende,
trovare le tue mani
che slanciano particole di luce.
movimenti indefiniti
per restare incollati
nell’abbraccio siderale.
Nella sezione Migrazioni, specie a pagina 47, si assiste alla nascita di contatti e vicinanze. L’entrata nel campo magnetico dell’altro da sé induce il soggetto poetico a trattare condizioni ambigue con il linguaggio retorico. Così come nella parte intitolata Adorazione, dove, a pagina 58, la bimba è mare: la bimba è vasta come il mare? E’ liquida come il mare? L’accumulo di condizioni dei versi successivi ci CHIUDE e ci rende pellegrini di distanze. (Una bimba è un mare / galleggia e articola gesti / trasmette i risucchi del flusso / un palpito si ascolta attraverso il contatto / la mano sta invecchiando e mi commuove /). Alla pagina 59 il poeta, nel tentativo di giungere al Sublime e all’Inconoscibile, sbatte l’uscio dell’evidenza e si blinda nella torre carceraria, acquistando, con il proprio isolamento aristocratico, l’aura immodificabile del sacrificato. Gli automatismi della scrittura potrebbero qui sembrare spie allertate al pericolo di avvisi urgenti. Parrebbe, quest’ultima strategia, il ripensamento ad eventuali altri accenni all’apertura, ma non è così. A pagina 60, come svegliato d’improvviso da un frase sibillina, Gianluca allenta la censura e lascia salire in superficie un gemito del tutto conoscibile. Il tatto, l’imbarazzo conturbante di una presenza, è clarità non contestabile. La pagina 61 è testimone di un’ulteriore apertura al senso diretto dell’esplicazione. La carnalità della “coppia” smussa tutti quanti i tentativi di “ri-chiusura”. L’Io cede, a poco a poco, il posto al Noi.