La dolce vita di Giò, trasgressione e passione, di Eleonora Carriero
Preparatevi a non scandalizzarvi. Leggere la storia di Giò Stajano infatti non scandalizzerà nessuno: soprattutto i quindicenni di oggi «ormai avvezzi a realtà ben più scabrose». Inutile accostarsi al libro-intervista, raccolto da Willy Vaira, sperando di conoscere particolari piccanti e sconosciuti del primo transessuale italiano, nipote del gerarca fascista Achille Starace, arrivato da Sannicola a Roma negli anni Cinquanta ad animare e rendere mitiche le notti della Dolce Vita. Anzi, di mitico, guardando attraverso i ricordi di Giò (e cioè da dietro le quinte di quel set fotografico che era Roma in quegli anni così come era costruito, ad uso e consumo dei paparazzi e dei lettori dei rotocalchi) non c’è proprio niente. L’intervistatore incalza, chiede di raccontare uno dei periodi più creativi, innovativi, trasgressivi, indimenticabili, eccessivi del nostro Novecento. E la risposta di Giò è disarmante: «In realtà a quel tempo i miei giorni e la mia vita scorrevano come tutti quelli che erano venuti prima e sarebbero venuti dopo, ed erano dolci o amari a seconda di ciò che mi capitava».
Preparatevi a non essere turbati da alcun tipo di violenza legata allo stereotipo dell’amore omosessuale. L’iniziazione di Giò avviene attraverso la ricerca di un significato che sfugge e non di una forma che seduce. A sedici anni, dopo una lezione di padre Pisani al collegio “Argento” di Lecce, cerca sul vocabolario il significato della parola pederasta: «Lessi, appresi, compresi. Non sono esattamente e tre V del cesareo “Veni, vidi, vici”, ma siamo lì. Ero un uomo che amava gli uomini». I suoi primi innamoramenti platonici sono per i corteggiatori delle sorelle («Io e mio fratello Achille dovevamo badare alle nostre sorelle e i ronzanti giovanotti, per avvicinarle, dovevano fare amicizia prima con me»). I suoi più grandi amori sono rievocati come scene di film hollywoodiani in bianco e nero (Giorgio «somigliava incredibilmente a Gregory Peck», Rolando «aveva una somiglianza notevole con Tyrone Power») e poi trasfigurati in romanzetti rosa.
Preparatevi a lasciare irrisolto il dubbio su chi sia veramente Giò Stajano. Uomo o donna? Persona o personaggio? Neanche la grammatica soccorre il lettore: capita che nella stessa pagina Giò parli di sé al maschile e al femminile; dopo l’operazione a Casablanca ( fatta «come rivincita su tutti i maschi dell’universo») continua a tenere il suo nome “ermafrodito” (anche se per l’anagrafe ora è Gioacchina). Eppure Giò, pagina dopo pagina, resta lì al centro di quel palcoscenico che con questa intervista ha voluto ricreare per sfuggire ancora una volta il nemico di sempre: la solitudine.
Ma questa volta ha deciso di farlo in modo sorprendente: con pudore, con un sentimento di delicatezza per i suoi parenti (soprattutto per quelli a cui non potrà più chiedere scusa per ciò che oggi definisce egoismo) e finalmente anche per sé.
Il palcoscenico di Giò ritorna ad essere la Puglia, il Salento: la terra da cui ha sentito di dover andare via per poter vivere nella verità. «Ero un uomo che amava gli uomini. Ma vivevo in Puglia, in una piccola cittadina agricola, e in più ero il nipote del segretario del partito fascista… Orizzonti luminosi non ne vedevo. Avrei dovuto vivere le mie emozioni e i miei sentimenti da solo e in solitudine, ma non ero proprio sicuro, già allora, di volere queste».
Dell’ambiente romano ora resta solo un elenco di nomi che stentano a riprendere vita (l’Excelsior, il Flora, il Madison, l’Hasler e l’Hotel de la Ville, il Café de Paris, il Pipistrello, il Victor’s, il Capriccio, il Kit-Kat, l’Open-Gate…): quella Roma era il luogo dell’esposizione di sé, della sperimentazione, dell’eccesso, della riprovazione, di cui sono testimoni le foto (alcune delle quali hanno fatto epoca, come quella del bagno nella fontana di Barcaccia che ispirerà a Fellini la scena con Anita Ekberg nel film La dolce vita) e le cicatrici dell’anima (che non si leggono, non sono chiaramente raccontate, ma si sentono tra le righe, come il dolore per la separazione dei genitori).
Il Salento era e resta la casa, la madre che accoglie (quella «combattuta» tra l’amore per la sua creatura e l’amore per il padre, ma anche quella che in una fotografia del 1983 posa composta e sorridente accanto a Giò che ora chiama «figlia mia»), la possibilità di nascondersi dallo sguardo onnivoro e provocatorio dei fotografi, per prendere fiato, per riposare, per ritrovare la parte più profonda di sé, quella che oggi ha scelto di non fare della sua vocazione religiosa un nuovo scandalo da dare in pasto alla stampa.
Questo libro è per chi non conosce il nome di Giò Stajano, per trovare il comportamento di una società ipocrita (“l’Italietta”) nei confronti dei transessuali e degli omosessuali ma anche delle donne, di una società costretta da Giò, ostinatamente provocatoriamente e pubblicamente, a confrontarsi con loro, a non ignorarli a doverci convivere e quindi accettare, riconoscendone infine se non diritti almeno la dignità.
Questo libro è per chi ricorda il nome di Giò Stajano e abbia voglia di passare dalla conoscenza (pubblica e pubblicizzata) dell’evoluzione di un copro al racconto (privato e quasi reticente) della storia di un’anima, capace di rinascere dalla cenere di incendi il più delle volte provocati da sé e contro di sé.
E questo libro è anche per Giò Stajano perché ancora una volta oggi, a 75 anni tra le mura della sua piccola casa a Sannicola, in via Regina Elena, possa ricreare, attraverso i lettori e con i suoi ricordi, il palcoscenico di quel Rigoletto che nella sua infanzia per punizione non ha potuto vedere: «i fantastici scenari», «i sontuosi costumi». Ora Giò è lì, al centro di quel palcoscenico, dopo la recita di una vita, e ringrazia.