Giorgio Bárberi Squarotti , Le cortesie e le audaci imprese

10-09-2006
Un articolato excursus nella poesia cavalleresca italiana, di Angelo Mundula

 

 Ancora una volta Giorgio Bárberi Squarotti compie un’acuta, profonda esplorazione di alcuni elementi portanti dei poemi cavallereschi dal Quattro al Cinquecento come le grandi acque, le piogge, la moda e le maghe. Egli ci dimostra, qui, come in qualche altro suo lavoro, il grande piacere (e l’uso, il significato sempre diverso) della citazione e della trasformazione di essa nelle mani di autori talvolta perfino lontanissimi fra loro, se non di opposte tendenze letterarie. A cominciare da lontano, ossia da quel famosissimo incipit della canzone tratta dal Rerum vulgarium fragmenta con cui il Petrarca ci offre una stupenda celebrazione dell’acqua: «Chiare, fresche e dolci acque, / ove le belle membra / pose colei che sola a me par donna».
Parte da qui, da questa «occasione suprema di compendiare nei tre aggettivi il valore assoluto dell’acqua riprendendo e trasformando in ben diversa prospettiva l’analoga lode dell’acqua che san Francesco pronuncia nella laude che apre la vicenda della nostra poesia delle origini», un fascinoso excursus di Bárberi Squarotti attraverso le forme assai diverse in cui essa compare nei versi o nelle pagine dello stesso Petrarca, del Fogazzaro di Leila, del Manzoni de I promessi sposi, ma anche de Il diavolo sulle colline e di altre opere, del Decameron, della Gerusalemme liberata, con una ripresa delle forme idilliche e amene del Decamerone (ma è pure un’acqua che «mortali perigli in sé contiene», come anche si può verificare in altri brani tassiani); del Pascoli di Italy, fino al Marino di Adone, del D’Annunzio del Canto novo, di Intermezzo di rime, ma anche di Isetteo e del Poema paradisiaco de Il cavaliere inesistente di Calvino, di Gozzano de I colloqui, di Montale di Satura, di Ungaretti de I fiumi e infiniti altri, ma prima di tutti e sopra tutti, naturalmente, Dante di tutte e tre le cantiche della Divina Commedia così fittamente attraversate da diverse acque e, ancora, san Francesco, che inaugura la poesia italiana.
Bárberi distingue, innanzi tutto, tra luoghi reali, naturali e luoghi d’invenzione, così detti loci amoeni, di cui quasi tutti gli scrittori fanno largo uso. Ma tende specialmente a sottolineare che l’acqua, come del resto ci ripetono molti autori, e soprattutto quella tassiana dell’inizio del tempo e della creazione, è, per la purezza e verginità, per la sua straordinaria bellezza, «un supremo dono di Dio», anche se non se ne ignora, da qualche autore come il Pascoli, la sua materiale utilità. Ed è anche il Pascoli a definirla «ottima e pessima»: e il saggista Bárberi ci offre, con precisione assoluta, i testi in cui essa allegoricamente assume le sue diverse connotazioni, come, in alcuni autori già più volte richiamati e, per tutti, esemplarmente ne il Montale di Satura, dove meglio può verificarsi «l’ambivalenza dell’acqua che purifica, ma anche lorda fino all’estremo disgusto».
Sembra che proprio nulla riesca a sfuggire dalla rete che il grande critico ha gettato vicino e lontano per catturare tutte le prede che confortino il suo discorso. Che è, infine, totalitario. «A questo punto l’intera nostra letteratura potrebbe essere rivista e raccontata alla luce delle forme e delle figure dell’acqua». Non è una scoperta da poco.
Uguale discorso delle frequenti e, talvolta, perfino interagenti, citazioni deve farsi per quanto riguarda il modo in cui gli autori dei poemi cavallereschi introducono e descrivono la vestizione dei loro personaggi femminili, ma anche, come il Marino, quasi esclusivamente maschili. Si parla, anche qui esemplarmente, dell’Ariosto, del Tasso e del Marino che vestono i loro personaggi di ambigue vesti, il Tasso, e con vestiti semplici e «nella qualità, generici», lo stesso Tasso e l’Ariosto, rispetto al Marino in cui «gli abiti vengono a essere rilevati dalla meraviglia e dalla straordinarietà, degli usi, delle trovate e delle invenzioni». «È l’esemplificazione preziosa delle forme e degli abiti della gioventù maschile che il Marino intende esaustivamente fissare in poesia», nel suo «poema di pace e non di guerra» (come quelli che l’hanno preceduto col Tasso e con l’Ariosto). E, dunque, in qualche modo, ma sarà meglio dire: con questo suo modo Marino introduce una «moda», si vorrebbe dir la moda, poetica, in modo peraltro sempre funzionale al suo poema.
«È il trionfo della moda come strumento della poesia moderna», scrive ancora Bárberi arricchendo la nostra letteratura di quest’altra assai acuta interpretazione. Così pure, nei diversi poemi cavallereschi, da Ariosto al Tasso, dal Pulci al Marino varia e si trasforma, talvolta con diversi aggiustamenti stilistici e funzionali invenzioni, a seconda delle occasioni, l’immagine delle maghe introdotte, appunto, con funzioni diverse nei diversi poemi.
Il saggista ce lo dimostra ancora una volta con stretta aderenza ai testi e perfino al lessico che vi è utilizzato. Sono analisi di tale rigore che non lasciano davvero possibilità di altre alternative di lettura. Ma soprattutto sorprendono ogni volta la prodigiosa memoria dei testi, la capacità altrettanto prodigiosa di analisi sincronica –che sa leggere insieme e mettere a confronto, fin nei riposti segreti e nei minimi particolari, testi, si diceva, spesso assai lontani tra loro–, e la grande, illuminante intelligenza critica. Ma soprattutto ci esalta ogni volta questo straordinario amore per la letteratura e per la vita, per la realtà e per l’allegoria, per la verità e l’invenzione nelle sue diverse forme.
Più in generale per tutte le forme della bellezza, della purezza della verità, ogni volta riscoperte sotto le righe: da qui nasce, talvolta quasi esplicato, talvolta appena velato, un canto di ringraziamento per questi immensi doni di Dio, per questa capacità data all’uomo di rivelare, sotto le apparenze della letteratura, la realtà della vita, la sua inconsumabile bellezza.