Giorgio Caproni, Amore com’è ferito il secolo

14-12-2006
Il Canzoniere inedito di Caproni, di Nicola Vacca
  
Giorgio Caproni è tra i poeti del Novecento il più singolare nella sua opera, con il gusto del paradosso filosofico, il poeta livornese senza mai rinunciare a un’ironia intelligente, ha dato una lettura tagliente delle inquietudini problematiche del secolo breve.
Caproni è un poeta, che per l’attualità dei suoi temi, andrebbe letto e studiato ancora oggi. L’occasione per tornare a occuparsi della sua poesia è l’uscita di un libro che raccoglie per la prima volta testi mai pubblicati in vita dal poeta. Amore com’è ferito il secolo (a cura di Stefano Verdino) raccoglie una quindicina di lettere che Caproni ha scritto alla moglie Rina. In realtà si tratta di brevi epistole scambiate tra i due coniugi: Rina in vacanza, nella sua Liguria, in attesa del marito impegnato nella Capitale. Ci sono anche le lettere che Giorgio inviava amorosamente alla consorte quando era soldato.
Attraverso questi documenti di prima mano il lettore potrà anche trovare informazioni utili sulla società letteraria del tempo. Ma la cosa più bella di queste pagine è un Caproni intimo come non lo avevamo mai conosciuto. «Vi è poi – scrive infatti Stefano Verdino nella prefazione – una particolare sintonia tra i due, che potremo intitolare, “il governo della casa”, un vero ping pong tra marito e moglie su contingenze di economia domestica, all’insegna di un condiviso piano di risparmio: si entra nel quotidiano della vita di allora, certo con varie piccole cose, che però tanto danno del sapore di una famiglia, molto attenta alle ragioni composte di affetto e di praticità: Giorgio perché la sposa, incinta, usi le calze elastiche, e la preoccupazione di Rina perché il marito mangi un po’ di più».
In queste pagine si legge, in maniera trasparente, il cuore del poeta che nelle piccole cose della quotidianità ha sempre trovato l’ispirazione per raccontare il viaggio dell’avventura esistenziale. Di queste piccole cose ha grandissimo rispetto Caproni anche quando scrive, con nostalgia, all’amore lontano. «Cara Rinuccia mia – scrive il poeta il 17 aprile 1941 – ti mando un fiorellino colto in questi boschi. Ti penso sempre con grandissima nostalgia. Supporto con gioia il mio sacrificio presente, perché mi pare di spartire così con te il sacrificio della tua gravidanza».
Rina non è soltanto la sua donna, diventa per Caproni il centro stanziale intorno al quale il poeta, inquieto viaggiatore nella solitudine dei sentimenti, costruisce il suo percorso intellettuale.
La figura della moglie troverà una collocazione ben definita nei temi principali della sua opera poetica.
Nel volume Verdino, che ha trascritto personalmente le lettere attingendo dagli originali di proprietà della fondazione Marchi, custoditi presso il Gabinetto Vieusseux di Firenze, include anche una serie di poesie che il poeta ha scritto per la moglie Rina. La sequenza segue un ordine cronologico di composizione, documentato nelle note, che prescinde dall’ordine di appartenenza alle singole raccolte pubblicate. Il volume è, inoltre, impreziosito da alcune foto inedite che provengono dall’archivio personale dei figli del poeta, Mauro e Silvana.
Le più belle poesie di Caproni per la moglie dimostrano come quest’ultima, insieme al tema del viaggio e della madre, sia una delle costanti tematiche ricorrenti della sua produzione.
Questo canzoniere d’amore privato, insieme alle lettere pubblicate per la prima volta, incuriosirà moltissimo il lettore di Giorgio Caproni che si riavvicinerà in un modo nuovo alle atmosfere suggestive che il poeta era solito intuire con straordinaria grandezza. Grazie alle quali è riuscito anche a disarmare l’atteggiamento dei benpensanti di fronte ai conformismi della Storia.
Dalla lettura di questi documenti preziosi emerge l’estrema trasparenza del poeta e dell’uomo Caproni che nella sua opera ha sempre trovato le parole giuste, e quindi scomode, per denunciare l’assenza di etica e di valori in un secolo preoccupato di salvarsi nelle apparenze.
Nelle lettere, come nelle poesie, Giorgio Caproni rievoca con eccezionale emotività il sentire intenso del proprio tempo vissuto nella sua interezza grazie anche a un profondo senso di religiosità. «Mio padre – racconta la figlia Silvana – aveva un libricino di preghiere e, di nascosto, quando nessuno lo vedeva, lo baciava, era tutto consumato, c’era un’immagine della Madonna della Guardia che è la madonna protettrice di Genova. Lui diceva: Come può un dio che ama i suoi figli messi sulla terra permettere tante atrocità. C’è un dio che non c’è. Diceva “Io prego non perché dio esiste, ma perché dio esista. Non c’è neanche il nulla, che già sarebbe qualcosa”. Non amava la chiesa. Lui ce l’aveva con la chiesa perché la religione era diventata una mercificazione».
Anche nelle lettere che Caproni, con semplice e affettuosa devozione, scrive alla moglie Rina si trova l’unico, incontestabile riscatto contro la potenza distruttiva delle parole, che inesorabilmente dissolvono la realtà nominata.
La grandezza del poeta sta nel coraggio di dedicarsi alle cose più care con un linguaggio fatto d’intenso quotidiano. Nella città dell’anima il poeta intraprende il suo viaggio sentimentale in cerca di quella dimensione interiore che qualifica il suo passaggio terrestre. La voce di Giorgio Caproni nel panorama della poesia novecentesca ha una sua completa autonomia: nell’intero percorso dell’autore degna di nota è l’acuta sensibilità che egli mostra per le lacerazioni profonde che la violenza della Storia procura all’anima che perisce sotto i colpi mortali di una disperazione esistenziale. Questo stato d’animo è anche presente nei versi che Caproni dedica alla moglie: «Ma tu, amore, / non dirmi, ora che in vece tua già il sole / sgorga, non dirmi che da quelle porte / qui, col tuo passo, già attendo la morte».
Nel secolo ferito il poeta Caproni è tormentato dall’assenza di Dio: nel canto poetico la foresta di simboli che popola il suo mondo interiore non concede tregua alle ombre alle quali la voce del cuore cerca di dare una risposta nel muro della terra. «Amore com’è ferito / il secolo, e come siamo soli / -tu e io- nel grigiore / che non ha nome. Finito / è il tempo dell’usignolo / e del leone. / Il blasone / è infranto / Il liocorno / ormai non ha lasciato / sul suolo: l’Ombra, è in cuore». Così si rivolge il poeta alla moglie in una bellissima poesia apparsa su “L’approdo letterario” nel 1969 per spiegare la realtà del rovesciamento di tanti annunci evangelici, che tormentavano i suoi dubbi di uomo che pensa stando sempre sul baratro della Storia che diviene.