Giorgio Caproni, Amore, com'è ferito il secolo

04-03-2007

Un canzoniere segreto nelle lettere di Caproni, di Paolo Febbraro

Sulla poesia, non sono pochi i luoghi comuni da sbugiardare. Uno di essi è quello secondo cui i poeti sono coloro che hanno sempre a disposizione la parola giusta, l’espressione perfettamente calata nel tempo, anche quello collettivo della Storia, la formula icastica e memorabile, capaci come sono di tradurre i fatti in significati. Un altro, è che alle mogli, come vogliono secoli di intrighi amorosi e di celebri adulteri, si debba in qualche caso mentire, e tanto più da parte di quegli esseri volatili che sono i poeti, così bravi a giocare con la doppiezza delle parole.
Sono luoghi comuni direttamente derivati dalla letteratura, o peggio, dal suo sentore o dalla sua atmosfera, che invece basta un epistolario privato fra un grande poeta e sua moglie per far sentire subito falsi, improntati a una leggenda puerile, o piccolo-borghese.
L’epistolario in questione è quello fra Giorgio Caproni e Rosa Rettagliata, sposi per più di cinquant’anni nel corso di un secolo, quello scorso, che certo non ha mancato di fornire le occasioni di una distanza e di una precarietà che da sempre la scrittura e la poesia si incaricano di colmare e sostenere. Epistolario magro e tenerissimo, fra un poeta prima soldato e poi maestro elementare, in duratura e malinconica trasferta dall’amata Genova, e la compagna che aveva saputo sostituire nel suo cuore l’amore per la prima fidanzata, Olga Franzoni, morta tragicamente alla metà degli anni Trenta. Quindici missive di Caproni, in gran parte del periodo bellico, e quattro di Rosa, detta Rina, risalenti all’estate 1959, che Stefano Verdino (nel volume Amore, com’è ferito il secolo) ha posto accanto alle ventidue poesie che nel corso della sua vita il poeta livornese ha dedicato alla «rosa sempre in cima / ai suoi pensieri», al nome che è stato «rima / sempre in lui battente». E questo è il miracolo ordinario e sottile perseguito in questo volume: un vero e proprio canzoniere preterintenzionale, sgranato nei decenni e negli stili attraversati, si unisce col suo nitore musicale alla grazia umile ma nettissima delle lettere, che narrano di indigenze quotidiane e affettuose, di lacerazioni non vistose né additate, di una confidenza minima e tenace, tutte segretamente intonate alla parola di uno dei grandi maestri della nostra poesia novecentesca. Parola sonora e costruente, come sappiamo, e come non pochi esemplari riportati da Verdino confermano, dal drammatico sonetto del dopoguerra Alba, con la splendida apertura esclamativa e purgatoriale, all’Ascensore («uno dei vertici della lirica italiana del Novecento», ammette sobriamente Verdino), che sembra distendere in rime numerose e popolari una trama di sovrapposizioni memoriali ardue e insidiose.
Parola poetica, d’altro canto, che la prosa diminuita delle missive non smaglia né contraddice, a confermare l’equilibrio che Giorgio Caproni seppe ottenere fra un’avventura poetica sempre più acuminata, fino allo sconcerto e alla vertigine, e la concretezza delle figure provocanti e inseguite, di vuoti, potremmo dire, ben determinati e non convenzionali.
Poeta di donne, così, è questo Caproni: e certo della fidanzata morta, e tanto più della propria madre, l’indimenticabile Annina Picchi del libro Il seme del piangere, la giovane, eterna Annina di cui il poeta – in un candido Edipo – si dichiara a un tempo «figlio» e «fidanzato». È indiscutibile che la donna per i poeti sia un’occasione da non perdere: con il loro spirito mitogenico, anche se non giungono alle visitazioni angeliche messe a referto da Montale, stravedono divinità femminili, veneri o terre-madri sperimentare la loro parlante astrattezza. Caproni non fa eccezione, seppure nell’unico modo autenticamente possibile, quello di incidere le proprie donne nella biografia più scandita, dal 1936 della giovane Olga al 1940 del conflitto che lo costringe ad abbandonare la sposa recente, fino al 1950 in cui la madre Annina giunge Ad portam inferi, com’è detto in una delle ballate limpide e dolorose del Seme. Una intersecazione di volti, di figli, mariti, padri e fidanzati al cospetto di donne a volte spettrali, fumose di nebbia e distanza, come la madre che, appena scomparsa, gli torna in mente ragazza, come la moglie che governa i suoi sensi e che la balordaggine della guerra gli sottrae, relegando anch’essa nei ricordi. Ricordi che sono deragliamenti nell’inconscio, coltelli lanciati da mani ormai invisibili. Per questo, poi, Rosa-Rina risorge dalla tempesta come regolo e misura di una vita: luce tentatrice e tentatrice salvezza dal fascino definitivo della tenebra, donna viva che sembra un miracolo importuno, l’eversione di una paga infelicità duramente conquistata nel corpo a corpo con la Storia. È questa la scommessa interpretativa su cui Stefano Verdino, in annotazioni fitte e criticamente cospicue ma discrete, da vero e proprio autore-ombra ha costruito il libro: «Rina non è solo un punto d’approdo, ma un costante alimento poetico, carsico ma inespugnabile, e tale da ridimensionare lo spicco più eclatante della donna morta (fidanzata e madre) su cui la critica caproniana ha molto – e forse troppo – investito».
Occasione non esibita, ma costante, dunque: che è anche una bella morale per una favola – quella spesso esaltante della poesia italiana del Novecento – apparentemente così sbilanciata sulle abissali sublimità della negazione. Favola diroccata e ammaliante, di cui la caccia metafisica di Giorgio Caproni ha saputo inventare l’avventura verbale, ma di cui pure ha voluto intonare il controcanto, il tenue bilanciamento delle apparizioni domestiche.