Poesie e lettere di Giorgio Caproni a Lina, di Angelo Lippo
Già il titolo del libro, un epistolario frammisto a poesie con dedica, è un invito a non distrarsi, a non mettersi comodi, perché queste Poesie e lettere alla moglie, sottotitolo di Amore, com’è ferito il secolo (Manni editore, Lecce, 2006, pp. 112, euro 12,00) del ligure Giorgio Caproni, piuttosto che all’evasione sollecitano alla riflessione. Una condizione che si riflette nella specificità di una poetica, quella di Caproni, che non si è mai allontanata dall’interrogazione, la stessa che affligge questo secolo malato di narcisistici velleitarismi. La domanda della poesia caproniana si svolge e si avvolge all’interno di un crocevia di dubbi, di interessi inquietanti, che continuano a seminare il cammino di ogni individuo non astratto dalla realtà, dalla quotidianità. Il reiterato richiamo alla storia degli affetti, dei legami, delle cose, è una sollecitazione definibile nella struttura unitaria del verso, nella organicità di un linguaggio speso al massimo della sua essenza e della sua essenzialità. È indiscutibile come la parola di Caproni rifugga dalle volute ermetiche, dalle elaborazioni strutturali fine a se medesime, puntando invece ad una “centralità” che la connota nel suo divenire e nella sua persistente andatura. Se ce ne fosse bisogno, anche le poesie pubblicate in questo libro, dedicate alla moglie Rina, evidenziano queste qualità primarie, che si elaborano e si riallacciano alla vicenda umana di Caproni e del suo rapporto tenerissimo e costante con la moglie. Il libro, curato da Stefano Verdino, contiene anche quindici lettere scambiate tra i due coniugi, dalle quali fuoriescono due creature legatissime, che si confrontano sulle vicende della vita e costruiscono una serie di emozioni davvero interessanti, sia sotto il profilo più strettamente sentimentale, sia per quello di vicendevole scambio di opinioni anche in merito alle poesie di Giorgio, delle quali Rina era una “attenta e partecipe lettrice”. Le lettere tracciano un percorso della memoria e del vissuto con un segnale di intelligenza e di partecipazione che fanno da contrappunto alle poesie, anzi a volte sembrano essere l’impalcatura sulla quale poi Caproni elaborerà i suoi testi poetici. Una poesia che soffre dei disagi esistenziali e civili del momento (i primi versi risalgono intorno alla fine degli Anni Trenta, quindi poco prima del conflitto mondiale), ma attraversata sempre dal soffio di un’attenzione al “femminino”, perché è risaputo quanto Caproni dedicò ad alcune donne della sua vita: “Olga Franzoni, la prima fidanzata, prematuramente morta; Rosa Rettagliata, la Rina di tanti versi e sposa di tutta l’esistenza; poi la sorella Marcella, la madre Annina, la figlia Silvana, la cognata Adele e altro”. Attorno ad esse il poeta elabora un suo progetto ideale, soprattutto per Olga, Rina e Annina, una sorta di forza centripeta lungo la quale intesse un canzoniere di teneri o sofferti richiami. Nel volume è possibile leggere pagine di varia pregnanza icastica ed evocativa, nelle quali la figura di Rina, affettuosa, premurosa, sensibile, sempre presente, assume sembianze e forme leggiadre (“il lindore dei tuoi virginei occhi”, “il colore caldo della tua pelle”. “l’erba dove tu posi i fianchi”, “ah rosa quando ti colsi”), un caleidoscopio d’immagini ruotanti, che fanno rilucere appieno il sentimento che unisce Giorgio e Rina. Tutto viene vissuto con partecipata sensibilità affettiva, pur quando le vicende della vita e le drammaticità degli eventi portano i due a vivere lontani, ma il poeta sa distillare emozioni d’intensa umanità, offrendo allo stesso tempo uno spaccato doloroso e dolorante dell’epoca. Ancora una volta Caproni riesce a innescare una marcia in più, a ricongiungersi alla sua Rina, nella difesa di un bene comune, da non perdere, peggio ancora, da non permettere che la violenza della guerra lo distrugga. Esemplare di questa condizione è proprio la lirica da cui è stato preso a prestito il titolo, quell’Araldica che attacca proprio “Amore, com’è ferito il secolo”, in cui il pronunciamento diviene invocazione laica, attestandosi quale testimonianza civile di una poesia estremamente inesauribile. Che resiste all’usura dei secoli.