Milano non è più da bere, in questo secondo libro di Giorgio Morale. Libro di infinita rassegnazione, com’era già nel primo (Paolu Piulu), dove lo scenario era un sud di paese e lo sfondo la civiltà contadina che si attardava su se stessa. Qui ti viene incontro una Milano plumbea, segnata da una condanna che si direbbe già passata in giudicato, filtrata dalle luci opache di un centro di assistenza dove in realtà si assiste poco e male, e il volontariato si tinge di ipocrisia mentre si arrende al potere che lo usa mortificandolo. Sotto gli occhi del lettore sfila un’umanità degradata, di assistiti e di “assistenti”, su cui esercita il suo arbitrio una sorta di cupola prepotente: il Presidente, la sua segretaria Martina, altre ombre di persone che eseguono, parlano e più ancora sparlano, fanno burocrazia, e vanno e vengono tra bolli e visti. Li regola tutti la struttura ambigua del comando, modulata su un linguaggio farisaico, di finta bontà, adusa a ricorrere al dettato evangelico come parametro del suo agire, in realtà viscidamente complice di chi semplicemente accumula una sfrontata ricchezza. Il Presidente, come si direbbe auerbachianamente, è la figura di tutto questo. Non ha nome perché è un sistema, e chi anche per un po’ pratica Milano ci riconosce il colore di Comunione e Liberazione, con la sua rete distesa per ogni dove e gli intrallazzi mascherati da gesti di bontà solidale. Gli “altri” vanno e vengono, come si è già detto: clandestini di ogni colore che hanno bisogno di un lavoro o di un tetto, prostitute che non sanno se e come liberarsi dai loro sfruttatori, miserabili tutti che il più delle volte vedono aggravarsi la loro pena nell’anonima freddezza di un centro che è solo luogo di smistamento, privo del calore umano che vi si cerca. E ripetitivo, sempre uguale a se stesso, coi suoi riti, il suo tran tran tran, la sua resa a discrezione alla truculenta pochezza di quell’uomo che vi domina.
Vittima anche lui, tutto sommato. Perché nell’andare e venire della gente, e nel vuoto scorrere del tempo, si delineano storie, si svolgono vite. La sua innanzi tutto, che è di un frustrato figlio di povera gente a suo tempo venuta dal Sud, che ha sofferto fame e umiliazioni e ha poi scoperto, per “riuscire”, la strada della politica servile scalando il successo gradino dopo gradino, fino ad occupare quello strapuntino che gli consente la casa in Sicilia, l’appartamento in centro, i soldi in abbondanza, l’obbedienza supina della moglie. La coscienza impermeabilizzata fa il resto, il metodo del ricatto si fa sistema, gli altri tacciono. O si adeguano, lo imitano, lo eleggono a modello, pur disprezzandolo nell’intimo. Come fa Martina, anche se a lei non sarà consentito di vincere. Perché le circostanze, e il suo greve bigottismo, la condannano a non avere il figlio prete e ad averlo invece sposato con Lidia, prostituta nigeriana di grande bellezza che a poco a poco la sostituisce nel potere su di lui. File e Anila vivono invece nello sfondo. Sono albanesi, madre e figlia, e la ragazza, che è morta quando compare nel libro, vive nella memoria di chi l’ha conosciuta la trafila tragica di tante come lei, avviate alla prostituzione, sfruttate, picchiate, uccise quando non si sono arrese a discrezione.
E infine Teresa, coscienza critica, voce di rivolta, unica a ribellarsi, con la scelta di essere ultima ruota del carro, alla “verità” dominante, perché convinta che l’unica verità sia la sua libertà, che le vale per vivere, che si è scelta contro tutto e contro tutti: la famiglia invadente, Martina servile e sprezzante, il Presidente rivoltante, in fondo anche contro Jani, l’uomo che l’ha messa incinta ma non sa essere abbastanza uomo da assumersi le giuste responsabilità. Le resta solo File, la madre albanese piena di dolente saggezza, e qualche amica. Per questo, e con bella intuizione, la sua storia è raccontata come storia parallela a quella del centro, evidenziata anche nel format grafico dall’autore, che fa di lei la voce narrante e insieme critica di quel mondo. Come ad evidenziare che in questa Milano senza coscienza le coscienze che per avventura dovessero esserci di fatto si defilano, si ritrovano chiuse nel loro privato e costrette a difenderlo senza altra speranza, quando c’è, che l’aiuto di altri derelitti.
Per questo parlavamo di rassegnazione. Che è anche nella forma della scrittura, non casuale nella scarnificata secchezza che la domina. Ironica ma anche dura. Morale ama la paratassi, assai spesso fa ricorso all’ellissi del verbo, l’aggettivazione è ridotta al minimo, quasi aboliti i paesaggi, diffusa la struttura dialogica, come in un rincorrersi di sticomitie. Lo è anche nei capitoletti brevi, essenziali, tranches de vie in cui due mondi si fronteggiano. A volte anche raggiungendo effetti di forte commozione. Come avviene quando il racconto ci accompagna dentro i locali della clinica in cui nasce Luca. E poi nelle tenere vicende dei suoi primi giorni, o mesi, di vita. Qui lo stile si distende, le ragioni del cuore prendono un po’ la mano allo scrittore, quasi che ad una vita che nasce e comincia il suo percorso non si possa comunque negare un gesto di gentile condiscendenza. Che le parole fattesi più lievi sono buone a sottolineare.