Confesso un’affinità con Giorgio Morale e con il suo modo di concepire il romanzo. Una scrittura attenta al dettaglio, a quei particolari — spesso infimi segni dello sfondo davanti al quale si svolge la narrazione — che caratterizzano Acasadidio e che avevamo già avvertito dalla lettura di Paulu Piulu (Manni, 2005).
La vicenda di questo nuovo libro si svolge a Milano, descritta (sempre indirettamente) come una città nella quale imperversa il malaffare praticato da intrallazzatori privi di scrupolo, da politicanti seduttivi e dai loro famigli che, pur di racimolare qualche briciola della grande abbuffata, non esitano a prestarsi a qualunque bassezza.
Nella fauna umana che popola questa porzione della realtà, si distingue il personaggio di Teresa che è, insieme, voce critica e dolorosa testimonianza di chi conserva la dignità della propria coscienza di ultima rotellina del carro. Teresa decide di scendere dal carro proprio per conservare la sua umanità e di persona libera e di persona cosciente della sua condizione esistenziale e sociale. Lascia che a condurre il carro sia il trionfante perbenismo di chi vince sempre nella vita a scapito di chi — “gli sfigati”— è sfruttato o è costretto a subire, ma non si fa complice né dello sfruttamento speculativo né dello svuotamento della propria coscienza di donna che, intanto, diventa madre. Un personaggio, quello di Teresa, che sentendo il bisogno di riscattarsi nei confronti di sé stesso prima che all’occhio altrui, rifiuta la pressione sociale di uniformarsi allo “sciattume” circostante.
Ci sono, fra i tanti che meritano di essere segnalati, due elementi che più di altri suscitano la mia attenzione nella lettura del libro: l’uno è l’uso del pregiudizio (sociale ed etnico) a scopo narrativo e l’altro il rivelarsi di un intreccio fra politica e affari che dalle mie parti, in Sicilia, si chiamerebbe di “stampo mafioso”.
Affrontiamoli uno per volta.
Il pregiudizio, nella realtà, consiste di un atteggiamento dei singoli — e condiviso all’interno del proprio gruppo — nei confronti di chi appartiene a gruppi (etnici, religiosi, politici, ecc.) diversi dal proprio. Per dare un’idea di atteggiamento sociale etichettabile come pregiudizio farò due esempi: “i pubblici dipendenti sono fannulloni” e “i siciliani sono mafiosi”. Entrambi sono pregiudizi proprio perché possono “recare pregiudizio, ossia produrre danni” a chi li subisce. Mai o quasi, nella realtà, si trovano gli “auto-pregiudizi”: in sostanza i siciliani e i pubblici dipendenti dei nostri due aneddoti non rivolgerebbero il pregiudizio nei confronti di sé stessi. Anzi si verifica l’opposto: che li respingano. In Acasadidio succede diversamente, una sorta di rovesciamento della consuetudine: gli albanesi, per esempio, sono definiti delinquenti da un’albanese.
L’altro elemento riguarda l’intreccio fra politica e affari: la politica e, in particolare la regione, imbastisce una tresca dopo l’altra con organizzazioni appartenenti o riconducibili — tutte e senza eccezione — al “partito dei cattolici”. Morale non lo dice, ma è come se questo partito (il riferimento a Comunione e liberazione sorge spontaneo) svolgesse a Milano il ruolo che nelle regioni del sud è esercitato dalle mafie nell’occupazione di tutti i posti disponibili e di ogni possibile ganglio del potere, con l’aggravante che, in questo spaccato di realtà milanese, la sua azione è mascherata dalla falsa coscienza di adoperarsi nella solidarietà sociale o per umanitarismo e per spirito di cristiana carità.