24/03/2009 - La poesia e lo spirito
Provocazione in forma di apologo, di Valter Binaghi
Poi t’imbatti in un piccolo libro come questo, e sei felice di esserti sbagliato.
Oggi le cose grandi, le intuizioni profonde, si presentano in punta di piedi, e osano diventare parola dopo lungo pensiero, esonerando le maiuscole e il citazionismo e affidandosi a una lingua tornata tutta cose e sentimenti, ossificata e per questo illuminante, come se l’ampia visione del poeta e e l’austera fermezza del fabbro avessero lavorato assieme per restituire allo sguardo sull’uomo una pietà sottratta alla retorica.
La cosa grande è il colpo d’occhio con cui Giorgio Morale, scrittore, educatore e uomo d’esperienza, individua quello che forse è il dilemma più tragico di un occidente pacificato: l’ospitalità allo straniero trasformata in servizio sociale, l’assistenza come mestiere, possono veramente creare le premesse per un’integrazione che sia più che sfruttamento reciproco? Lo scenario principale del romanzo è infatti quello di un Centro (emanazione di un ente assistenziale cattolico il cui Presidente è un vero imprenditore della “carità”), che fa da collettore tra la manodopera degli immigrati e le offerte di lavoro, realizzando profitti non sempre trasparenti oltre ai finanziamenti pubblici.
Oltre al Presidente (“Il Presidente non si sa mai quando arriva, ma se c’è, si nota subito. Sta abbastanza in ufficio, ma in perenne movimento. Non fa nulla in particolare – fa il Presidente”) c’è il suo braccio destro, Martina (“Per Martina l’amore umano non esiste – lei ti aiuta ma crea dipendenza, ti accoglie e ti mette in gabbia, ti tiene in un purgatorio perenne”), e gli impiegati del Centro, che hanno scelto l’accoglienza agli immigrati senza vocazione ma per pura casualità, e svolgono stancamente le loro mansioni attenti a confermare l’immagine di onnipotenza che il Presidente ama dare di sè.
Gli immigrati sono ritratti a loro volta con crudo realismo: scaltriti dal bisogno, imparano presto il linguaggio del contratto mimetizzato da compassione e ripagano la finzione della carità con una finta sottomissione e una finta efficienza lavorativa.
Nessuno è buono, dove la bontà diventa merce: ci vorrebbe pochissimo a trasformare il tutto una sciarada di caricature (e l’autore ne avrebbe il tratto sapido e lo humour) ma Giorgio Morale snobba la facile soluzione della parodia così come si tiene ben lontano dal sociologismo puramente documentario, costruendo un bellissimo personaggio, quello di Teresa, che è insieme la protagonista e il testimone pietoso della vicenda.
E’ nel suo sguardo umile e desolato che noi constatiamo questa deriva d’umanità senza scivolare nel giudizio moralistico sugli uomini, perchè lei, umanissima, non ce lo consente. A sua volta impiegata del Centro (forse l’unica ad aver scelto quel lavoro con un’autentica motivazione), la sua vita sentimentale frammentata l’ha allontanata da una madre inchiodata al decoro dei tempi che furono e, a poco poco, la routine del Centro l’ha risucchiata in una rassegnazione senza sbocchi, per quanto lì dentro sia l’unica a percepire la miseria morale e l’ipocrisia su cui l’attività frenetica del Presidente si fonda.
Dopo una relazione con un albanese scopre di essere incinta: l’uomo, rimpatriato, difficilmente tornerà ed è troppo tardi per abortire. Teresa decide di tenere il bambino, e solo a poco a poco questa decisione sofferta si trasforma in una partecipiazione accorata al mistero della nuova vita che si fa strada in lei. Proprio questo rinnovamento, che torna a far vibrare in profondità la sua inappagata ricerca dell’autentico, le darà il coraggio di troncare con l’ipocrisia del Centro, rinunciando alla sicurezza di un impiego umanamente deprivante per scommettere finalmente sulle proprie risorse interiori.
Come lettore posso dire solo che ho divorato questo libro in poche ore, perchè ha un ritmo irresistibile ed è lì a dimostrare che si può narrare con maestria di cose umane senza cercare lo choc della cronaca nera o dell’erotismo di bassa lega. Come scrittore, sono ammirato dal lavoro di Giorgio Morale: davanti a un libro come questo ammetto volentieri che raramente mi è riuscito di mantenere una tale purezza di sguardo, l’umiltà che evita all’autore di trasformare la vicenda in un’allegoria del suo pensiero, e come Giorgio Morale dare al lettore il privilegio di una visione originaria piuttosto che la grammatica di una teoria del reale. Per far questo non basta essere abili artigiani della composizione: occorre una maturità linguistica che è prima di tutto maturità spirituale.
Chapeau, Giorgio.
Bottega di lettura, di Bartolomeo Di Monaco
Qui invece, alla memoria si affianca il presente, ossia la vita reale che scorre e esibisce il suo conto quotidiano, pieno di segni di umiliazione, di corruzione e di dolore.
Siamo in un Centro di volontariato, a Milano, “estrema periferia”. Alcune donne, Ombretta, Martina, Vanna e Teresa, con l’aiuto di alcuni giovani, si spartiscono le incombenze. Chi passa dal Centro ha bisogno soprattutto di lavoro. Si cerca di fare tutto il possibile per trovarglielo, anche poche ore. L’assistenza agli anziani è il lavoro per il quale c’è più richiesta, però non tutti sono disposti, ad esempio, a vivere 24 ore su 24 in casa dell’anziano. Si vuole mantenere uno spazio privato per la propria vita.
La scrittura è secca, asciutta, quasi telegrafica. I personaggi vengono appena disegnati; i loro contorni sono resi da fatti e movimenti che li coinvolgono.
Si può anche dire che la precarietà della condizione che affligge i visitatori del Centro si trasferisce nei volontari, la cui integrità in qualche modo è intaccata. Compromessi, sotterfugi, spiate sono all’ordine del giorno e fanno del Centro un luogo di lavoro come tanti altri, se non addirittura peggiore. L’abnegazione, più apparente che reale infatti, non è il frutto di una vera e propria vocazione. Riscuotono un compenso economico che li rende consapevoli di una fortuna che manca agli ospiti, molti dei quali sono stranieri fuggiti dalla miseria del loro Paese. Si adeguano all’intrallazzo, sono bravi a carpire fondi dello Stato o della Regione, falsificando poi i rendiconti. Morale non ci nasconde il marcio che inquina iniziative che hanno almeno nel nome o nel progetto dichiarato ambizioni nobilissime. È dappertutto così? Il Centro di Milano può rappresentare una situazione diffusa? L’autore denuncia: “Per il lavoro usano la stessa logica. Indirizzano i poveretti da famiglie facoltose del loro partito o da aziende della Bassa della loro congrega – per essere più forti si sono messi in una Compagnia che ha sbaragliato la concorrenza. Così riforniscono i loro amici di manodopera a basso costo e per di più sono pagati dallo Stato perché trovano lavoro. Come se non bastasse, hanno il riconoscimento morale perché fanno del bene e li premiano con l’Ambrogino d’oro.”
Anche la Regione lombarda è presa di mira. Ci si torna a domandare, dunque, se l’obiettivo di Morale è finalizzato a evidenziare il malcostume di una parte politica in qualche modo espressione del cattolicesimo, o è più generale, giacché solo in quest’ultimo caso, nel momento in cui ci si addentra nel complessivo universo del volontariato, la denuncia può avere una qualche efficacia e rilevanza. Ciò che viene rilevato, infatti, a carico della politica, e in questo caso a carico della Regione lombarda, è un malcostume noto e diffuso: “Pubblicizza bandi e appalti tardi perché un comune mortale possa usufruirne, e prima della scadenza convoca le associazioni amiche per decidere le parti.”; così pure il traffico ininterrotto di bustarelle, contropartite e quant’altro, rappresenta un illecito che l’operazione Mani Pulite non è riuscita, come è risaputo, a debellare. L’interesse più innovativo del libro, pertanto, sta nell’indagine sul volontariato, quand’esso però non si limiti ad una denuncia di parte. Guai, infatti, ad imputare ad una parte il tutto: “ha conosciuto il partito dei cattolici e ha fatto la sua fortuna.” Ne scaturirebbe un limite che inficerebbe le buone intenzioni dell’intera operazione.
Accanto di pari passo vanno avanti alcune storie di immigrazione, lo sfruttamento della donna, il consenso della famiglia che ne aspetta il guadagno, le violenze, le sopraffazioni, le vicende di Teresa, una collaboratrice del Centro, che racconta in prima persona. Anila è un’albanese che ha avuto il coraggio di denunciare i suoi sfruttatori. Il Centro l’ha presa sotto la sua custodia. Difficile metterla sulla buona strada, finché sparisce, non se ne ha più notizia. File, che è la madre, è fuggita anche lei dall’Albania, non ha una buona opinione dei suoi connazionali: “Gli albanesi non hanno la logica del lavoro. Dicono di essere figli di conti e duchi. Se hanno bisogno di una cosa, gli deve essere data, procurarsela lavorando è poco dignitoso. Il lavoro, nessuno lo cerca. Se gli viene offerto, lo prendono e poi lo mollano.”
Il Centro, attraverso le disgrazie degli altri, è un’occasione d’oro per alcuni: “Siamo o non siamo quelli che fanno soldi con gli sfigati?” Il Centro è un business: “Prima andavano forte i tossici, adesso non più. Idem per i malati di Aids – a che scopo costruire case per loro? Anche gli stranieri ormai non tirano, li bruceranno tutti. Bisogna pensare alla nuova frontiera del volontariato: i ragazzi di strada, gli anziani, le donne maltrattate.” È un business soprattutto per il Presidente che, personaggio a tutto tondo (ha sposato la moglie “perché aveva capito che con lei non avrebbe avuto problemi”), è riuscito ad accollarsi vari incarichi (perfino la presidenza di una finanziaria che gli concede prestiti) che gli consentono di accumulare soldi e di comprarsi case in luoghi ameni: “Poi ha comprato nel centro di Milano una casa di duecento metri quadrati. Possiede inoltre una casa a Lipari e una a Rapallo.”
Il lato grottesco della sua personalità sta nel fatto che lui gli extracomunitari non può neppure vederli. Dice alla sua collaboratrice Teresa: “Guarda che io sto parlando seriamente, io sono per le crociate.”
Qualcuno cerca anche di approfittare sessualmente delle ragazze che si presentano al Centro: “Cominciava con una domanda, una carezza, prometteva favori e qualcuna che ci stesse la trovava. Facevano sesso in uno sgabuzzino. Si sapeva, eccome!”
Ne esce una raffigurazione squallida di un’attività che avrebbe tutt’altro fine. L’altruismo, la bontà, la generosità, la carità, l’amore, si sono trasformati in vizio e corruzione.
Si prova sgomento. Si resta increduli. Ed anche se poi assistiamo alla tenera storia di Teresa, che aspetta un figlio da un albanese tornato in Patria e decide di tenerlo (l’unica ad avere la vocazione giusta per lavorare al Centro), l’ambiente disegnato da Morale lascia l’amaro in bocca. Il volontariato ne esce scornato.
Ciò che resta esaltante e luminosa, sempre, è la scrittura, scarna ma efficace, precisa, graffiante. Lo era anche in “Paulu Piulu”, ma qui la materia è più ostica, la trama più composita, e perciò più intrigante la sfida. Si può dire che, dopo questa prova, Morale sarà sempre pronto a darci il meglio di sé.
La storia di Teresa è quella che evidenzia più di ogni altra i vari timbri della scrittura, le modulazioni quasi musicali dei sentimenti. Il lettore vi si adagia come per una lenta ascesa spirituale: “Ieri sera sono rimasta a casa. Una giornata così buia, come se non fosse mai nata. Stavo accucciata, lasciando che il calore che saliva dal letto lottasse col freddo che avanzava con la sera. Via via che il buio aumentava, la musica cresceva d’intensità. Una fiammella nella notte. Mi sono addormentata così, con la radio accesa. Stufa del vis à vis con lo schermo. Non aspettavo nessuno. A tratti mi destavo indovinando la pioggia nello spessore della notte.”
Anche il ritratto della madre di Teresa, una donna ancora orgogliosa di sé, resistente alle sconfitte della vita, fermamente legata al passato, merita una speciale attenzione: “Cova con gli occhi la sua catasta di legna, serbandola per un’emergenza. Quando ha freddo va a letto. Se non prende sonno, è di nuovo in piedi: si fa scaldare un latte e siede davanti alla tv.”
La vicenda di Teresa, nata da una relazione favorita dal suo lavoro, si distacca a poco a poco da quella del Centro, fino a contrapporvisi. Teresa si domanda come i suoi compagni di lavoro preghino: “O forse è ancora peggio, pregano come prima e fanno finta di niente.” La sua storia va letta come una risposta al male, che non può invadere e soffocare ogni cosa. Teresa lascerà il Centro, a significare che il bene non viene mai sconfitto del tutto; quando meno lo si aspetti, ecco che compare con tutta la sua forza a donarci di nuovo la luce. Il figlio appena nato di Teresa è quella luce: “Una volta nato, mi basta lui. Rannicchiato, gambe incrociate, manine chiuse, sfumature azzurrine. È fatto giusto per il mio braccio, per la mia mano.”
Infatti, non è un caso che, mentre in Teresa s’accresce la luce, il Centro inizia la sua disgregazione.
Onlus e prostitute, di Giancarlo Consonni
20/04/2009 - www.zam.it
La nascita e la rinascita, di Giovanna Marras
Nella terra bruciata dell’estrema periferia, di Giuseppe Amoroso
Il romanzo Acasadidio di Giorgio Morale (2008 Manni Editori) si apre con l’umore amaro di una consueta grigia mattina milanese, che sembra stendere una coltre di claustrofobia sopra ogni gesto e ogni ambiente.
E il racconto sembra via via fermarsi di proposito in luoghi circoscritti; non andare, con lo sguardo, oltre il chiuso dell’ufficio, e poi l’abitacolo del tramvai, qualche via cittadina sul cammino di casa, o il collegio di suore imposto per decoro piccolo borghese a una giovane inquieta, la vecchia casa di famiglia dalle stanze chiuse, che rimandano alle stanze chiuse della memoria che trattengono i ricordi, le cose salvate di una passata, inconsapevole, e non proprio rimpianta infanzia, affollati atrî e uffici di questura, o la luce fredda, compressa, di un obitorio, il dolore muto di una madre, che ammutolisce il narratore: “non mi lasciava una parola in bocca”.
L’ufficio, “stabile vecchio, volutamente povero”, “angustia dell’ingresso, oscurità delle scale, locali tutti uguali”, “dappertutto crocifissi ai muri, madonne, frasi del vangelo e di madre Teresa di Calcutta”, è un centro di “volontariato” che ha in gestione l’accoglienza e l’avviamento al lavoro degli immigrati: le necessità e i drammi degli ultimi arrivati. In realtà un luogo che l’italico genio, e la retorica dell’impresa, ha trasformato in un pretesto, uno dei tanti in città, di speculare attraverso clientele, appropriazione di denaro pubblico e favori incrociati. La modestia esteriore, l’impronta confessionale, la finzione del volontariato e la locazione periferica, a casa di Dio appunto, sono gli studiati camuffamenti con cui si dissimula il fulcro della via lombarda, e italiana, sgangherata e truffaldina, alle politiche dell’immigrazione, dietro copertura di “servizio” e iniziativa privata: “indirizzano i poveretti da famiglie facoltose del loro partito o da aziende della Bassa della loro congrega – per essere più forti si sono messi in una Compagnia che ha sbaragliato la concorrenza. Così riforniscono i loro amici di manodopera a basso costo e per di più sono pagati dallo Stato perché trovano lavoro. Come se non bastasse, hanno il riconoscimento morale”. Piana allusione alla struttura di potere della Compagnia delle Opere, e tuttavia Morale si concentra sui caratteri dei personaggi piuttosto che sulla descrizione dei meccanismi di malaffare e di connivenza delle istituzioni.
Il romanzo alterna, in modo un po’ schematico, due piani narrativi.
Molte le storie che si dipanano dalla racchiusa unità di luogo dell’ufficio. Da qui procede il racconto impersonale dell’andirivieni delle faccende di lavoro ed esistenziali dei vari personaggi. Teresa è l’impiegata (forse l’unica in autentica buona fede) che apre l’ufficio, e in un certo senso ne custodisce sempre le chiavi. Il direttore faccendiere, figlio di immigrati meridionali, passato da una gioventù di ristrettezze al caparbiamente e spregiudicatamente cercato successo economico e sociale. La vicecapa Martina (“ha preferenza per le mignotte nere da redimere e i cingalesi dall’aria cattolico-remissiva”), una vedova bulimica e bigotta, delusa di non vedere il figlio prete (e che vedrà assecondata, in modo imprevedibile e imbarazzante, la propria preferenza in fatto di immigrati dal figlio stesso). Ombretta, che “da ex femminista incallita, rifiuta belletti e profumi: «i deodoranti inquinano» dice”. Vanna, una chiusa, che va “diritta per la sua strada”, ostenta senso del sacrificio ma non si è mai sicuri sull’effettivo rispetto degli impegni, e si fa ingannare “da un eterno fidanzato” che nasconde una moglie in Romania. Altri personaggi maschili aggiungono carattere alla vita dell’ufficio.
Teresa prende voce direttamente nel secondo piano narrativo, che occupa i capitoli resi in prima persona e contrassegnati dalla scelta tipografica (non necessaria, a mio parere) del corsivo. Qui il narratore fornisce un commento interposto alla vita dell’ufficio e porta il lettore ad immedesimarsi con la realtà esistenziale di una giovane donna alle prese con rapporti non facili con la famiglia, con la propria stessa crescita, i suoi luoghi dell’anima, con gli uomini, con una gravidanza inattesa. Qui Morale risolve il resoconto episodico in una solida unità di resa psicologica della vita di una donna e del suo incontro con il dolore altrui, da lei accolto con l’ospitalità offerta ad Anila, una prostituta albanese dal destino segnato, e poi alla madre File, venuta in Italia a reclamarne il corpo. File è una figura straordinaria di mater dolorosa che ha in sé le risorse di dare un senso e una tenue speranza in una vicenda che ha il pathos e i lutti di un dramma tragico. File riannoda un linea spezzata di umanità prendendosi cura di Teresa durante la gravidanza e il parto.
La concisione del lavoro di Morale (30 capitoli distribuiti in 130 pagine) non deve trarre in inganno: Acasadidio è un romanzo certosinamente preparato, in cui ogni paragrafo rivela una scrittura nitida e controllata, capace di annullare ogni distanza tra lettore e fatti descritti, tra costruzione dell’impianto narrativo e piacere della lettura. Ecco, questo è il merito del romanziere, di portare il manufatto di testo, con i suoi artifici e dispositivi, a essere come una lama di bisturi che affonda nella realtà politica e sociale della crisi italiana, nella vita delle coscienze distratte e appannate. Il romanzo prende vita sul suo doppio binario di registro narrativo ed è un’importante testimonianza sullo stato dell’umanità dell’Italia nel nuovo millennio, tra emigrazione e condizione speculare del precariato degli indigeni italiani, e le incertezze della vita di tutti. Ma c’è di più.
L’intento ironico, a tratti satirico, di Morale è in realtà uno sguardo politico, che tuttavia forma solo un primo, e forse non così rilevante, livello di lettura, perché la crisi, il fallimento delle classi dirigenti, in una parola la catastrofe italiana che viene da lontano, è davvero sotto gli occhi di tutti, ad ammettere un po’ di onestà intellettuale. La letteratura, oggi in Italia, se si può parlare di letteratura di impegno civile, aggiunge un valore conoscitivo importante ma tutto sommato marginale all’analisi della realtà (e credo che molti non saranno d’accordo con questo apodittico giudizio). Il testo di Morale allora ha la forza di evocare caratteri e strutture esemplari dell’esperienza umana. Si nota, ad esempio, una marcatissima asimmetria di giudizio morale tra personaggi maschili e femminili: il presidente, il padre spirituale nel ricordo della giovane Teresa, il padre che se va, gli approfittatori che lavorano nel centro, il fidanzato albanese, sono figure insicure, disonesti, ipocriti, traditori, detentori di un’autorità usurpata, vengono sistematicamente meno alla responsabilità vera: il romanzo illustra il collasso delle pretese morali dell’autorità maschile. A Teresa, a File, più che alle donne costrette dalle, e vittime delle, aspettativi maschili, viene affidato il compito di fare da levatrici dell’unico futuro possibile, quello incerto ma che, solo, può salvare della disumanità montante del presente. Presente provvisorio, presente sotto continua emergenza, e perenne condizione umana: “escono tutti dallo stesso buco e finiscono tutti sotto la stessa terra” (pag. 123). Quando coloro che guadagnano dalla sofferenza del prossimo non ci saranno più, quando i guadagni illeciti saranno stati spesi, gli uomini e le donne continueranno a nascere e a morire.
Sotto questo aspetto, il titolo del libro oltrepassa l’ironia dell’attualità, ed esprime una dolente, amara presa d’atto del mercimonio che gli uomini hanno fatto del dovere sacro, prima che etico, della relazione di ospitalità, e proprio in nome di quella religione che dello straniero fa il prossimo. Nel romanzo Dio non parla, non c’è, fugge dalle istituzioni che gli uomini fabbricano in suo nome per dissimulare miseria, la loro miseria, e sopraffazione. Sarebbe facile arrestarsi alle considerazioni di un umanesimo laicista, la religione come superstizione, strumento di dominio, imposizione sulle coscienze, e certo Morale condivide questo clima intellettuale, ma l’immediatezza delle sofferenze rappresentate in Acasadidio chiama il compito urgente della compassione, più che dell’analisi razionale. Compassione assente in tutti i volontari del centro, tranne che in Teresa, che accanto alla compassione per l’altro impara la compassione per se stessa.
Forte di questo sentimento, Teresa al termine del romanzo compie l’unico autentico atto di libertà, decidendo di lasciare l’impiego e portare a termine la gravidanza, pur senza la presenza di un compagno e di sicurezza economica. Teresa è testimone e custode del dolore dell’oggi e dell’attesa del domani. È una degna conclusione di un romanzo toccante, in cui Morale descrive con competenza, senza compiacimento né sensazionalismo, i meccanismi di sfruttamento “legale” degli “sfigati” così come quello illegale delle giovani nigeriane e albanesi (ma potrebbero provenire da tante altre parti del mondo) nel micidiale cozzo tra strutture familiari arcaiche e la seduzione pornografica predominante nella comunicazione sociale. È la persistente materia umana della violenza e dello sradicamento. Sono i paralleli dell’inganno, dell’ipocrisia perbenistica del “padre spirituale” per nulla devoto allo spirito, della preside del collegio di suore, e dei finti fidanzati delle ragazze mandate al mercato (che diventa macello) del sesso. Le famiglie, tutte, sono acquiescenti, corrive, impotenti di fronte al male.
Le famiglie tutte. Il romanzo descrive noi, e descrive gli altri che saranno noi nel tempo di una generazione, perché la società oggi si muove in fretta, e tutto assimila. La vita più intima di tutti i personaggi di Acasadidio è inestricabilmente intrecciata con lo straniero, con l’immigrato, che già straniero non è più.
Per chi ci sarà domani, saranno duri da affrontare i risentimenti, le scie di malcontento che la nostra cecità, le nostre furbizie stanno ora depositando, con la rinuncia preventiva, stupida, demagogica, autolesionistica, al tentativo di formare una società meno ingiusta di questa.
Dobbiamo essere grati a Giorgio Morale e al suo Acasadidio per ricordare, con sobrietà e molta fermezza, queste ovvie verità.
Una folla di affaristi e fannulloni, di Pasquale Almirante
La cruda realtà contemporanea, di Luca Giarola
Acasadidio (Manni Editori, 2009, 135 pp, 14 Eu), il secondo romanzo di Giorgio Morale, esce nell'anno della crisi e fotografa con spietata oggettività la società contemporanea, le sue incertezze, i suoi angoli bui.
È in questo clima che i personaggi sfilano come ombre tra una pagina e l'altra del romanzo: Martina, Teresa, Ombretta - un gruppo di donne che portano avanti il centro in un'atmosfera tesa e frenetica con l'aiuto di alcuni volontari. E poi, sullo sfondo, storie di anime perse come Anila, la giovane ragazza albanese intrappolata nel racket della prostituzione e destinata alla morte.
Quella raccontata da Giorgio Morale è una realtà che nasce da documentazione. «Un conto sono i volontari che corrono in aiuto della gente nei momenti di emergenza, come quando c'è il terremoto» spiega l'autore, «un altro sono le associazioni private che negli ultimi anni sempre più spesso prendono il posto di quelle statali».
Il più grande messaggio di denuncia di Acasadidio, alla fine, è proprio questo: tra i tanti vizi italici, uno che troppo spesso passa sotto silenzio è il sistema che lucra sull'assistenza. «Il Terzo Settore è diventato una vera e propria macchina economica» prosegue Morale: «senza nulla togliere alla buona fede delle persone che ci lavorano, alcune delle più grandi associazioni di volontariato hanno bilanci da vere e proprie aziende».
01/09/2009 - www.lucidamente.com
Onluus cattoliche... a scopo di lucro, di Francesca Gavio
Sono le peculiarità di Acasadidio (Manni, pp. 144, € 14,00) di Giorgio Morale, il cui titolo gioca sia con l’ubicazione del luogo, ovvero la collocazione periferica e isolata della sede dell’ente di cui si parla nell’opera, sia con la sua “cattolicità”.
Il “Centro”
Ci troviamo all’estrema periferia di Milano:
«Dentro, gelo di canonica. Stabile vecchio, volutamente povero, per dare l’idea della penuria dei mezzi. Di quegli spazi di cui una lunga tradizione ha perfezionato il modello. Angustia dell’ingresso, oscurità delle scale, lunghezza dei corridoi, locali tutti uguali. […] È quel che si dice: curare l’immagine. […] Siamo in un centro di volontariato».
Per respirare aria cattolica ci si cura di tutti i dettagli:
«Infatti dappertutto crocifissi ai muri, madonne, frasi del vangelo e di madre Teresa di Calcutta incorniciate».
Nel Centro impera l’individualismo: ognuno pensa per sé, non esiste il lavoro d’equipe. Non ci sono controlli, nemmeno da parte dello Stato e degli enti pubblici, erogatori di finanziamenti. Anzi, spesso senza troppi sforzi, grazie a questi ultimi, si vincono gli appalti per una telefonata delle istituzioni:
«Anche la Regione. Pubblicizza bandi e appalti tardi perché un comune mortale possa fruirne, e prima della scadenza convoca le associazioni amiche per decidere le parti».
Le “non persone”
«Siamo o non siamo quelli che fanno i soldi con gli sfigati? […] Prima andavano forte i tossici, adesso non più. Idem per i malati di Aids – a che scopo costruire case per loro? Anche gli stranieri ormai non tirano, li bruceranno tutti. Bisogna pensare alla nuova frontiera del volontariato: i ragazzi di strada, gli anziani, le donne maltrattate».
Sembra che il Centro abbia a che fare con “non persone”, merce da cui trarre profitto. Per questo non si preoccupa di alzare il livello e la qualità del lavoro degli immigrati che si rivolgono a loro. Solo Teresa, la segretaria del fantomatico ente, con la sua umanità e sensibilità, li riscatta:
«Gli stranieri invece sono vivi. Sono visibili. Dove arrivano, fanno la loro casba. Noi, che facciamo? Guarda le africane: talmente colorate, che non hanno bisogno di trucco; se appena tinte di rosso, le labbra splendono come la luna più rossa nella notte più nera. Oppure con un che di antico nell’aspetto matronale, come tante dee madri. Anche gli uomini ti trasmettono un senso di pienezza e nessun isterismo. Basta guardarli con i bambini: mai urla, sculacciate, sberle, occhi cattivi».
E come scelgono i lavoratori?
«Se una donna si prostituisce e si droga, ma viene a dire: “Mi pento e mi dolgo”, anche se poi continua imperterrita, ha l’aureola della martire stampata in fronte. Se una donna incinta sospira “L’ha voluto Dio”, Martina – vicepresidente del Centro – si squaglia».
Non sono sufficienti solamente gli esercizi spirituali per risolvere i problemi, occorrono azioni concrete: non sarà una preghiera a far trovare una casa e un lavoro a chi ne ha bisogno.
E qual è la filosofia?
«Indirizzano i poveretti da famiglie facoltose del loro partito o da aziende della Bassa della loro congrega – per essere più forti si sono messi in una Compagnia che ha sbaragliato la concorrenza. Così riforniscono i loro amici di manodopera a basso costo e per di più sono pagati dallo Stato perché trovano lavoro».
Bassa manovalanza e sottocosto, amicizie politiche e “favori”: così il Centro si è fatto strada.
Il presidente
La carica del direttore di tale istituto si delinea attraverso le sue stesse parole:
«Qui la legge sono io e si fa quel che dico io. […] Il capo non ha la fortuna del dipendente, che finito l’orario va a casa e manda il cervello in vacanza. Il capo ha solo grane».
In altre occasioni, tuttavia, contraddice quanto sopra affermato:
«Siamo volontari, non sindacalisti. Bisogna dare di più. O fermarsi oltre l’orario di lavoro, o cedere una parte dello stipendio, o rinunciare alla quattordicesima. I Centri di volontariato fanno tutti così».
Facile a dirsi se si dirige almeno una decina di enti, dai quali ci si assicura ingenti guadagni! Senza contare tutti i privilegi di cui gode: rimborsi spese, baby pensionamento, e auto, cellulare, pranzi, cure mediche spesati.
Le riunioni per “il capo” sono perdite di tempo, «illusioni della democrazia». D’altronde per lui i dipendenti devono semplicemente essere sottomessi, non importa la loro onestà.
Vita e morte si intrecciano
La vera protagonista del romanzo è Teresa, che legge, attraverso i suoi vissuti, il Centro e le persone che incontra. La sua esistenza si imbatte in Anila, prostituta albanese, che decide di denunciare i propri aguzzini e cambiare vita, alla quale concede una possibilità e l’appoggio di cui ha bisogno.
La morte di Anila coincide con la nascita del figlio di Teresa, Luca, un figlio inizialmente non voluto, che fa allontanare il suo compagno e che viene criticato da Martina e dal presidente, perché concepito fuori dal matrimonio. Ad assisterla durante questo lieto evento non sarà sua madre, che apprende con rammarico la notizia, bensì quella di Anila, File, che è in Italia per il funerale della figlia, che, adolescente, ha venduto per qualche soldo.
Luca e le sue dimissioni dal Centro rappresentano per Teresa l’inizio di una nuova vita, lontano dall’oppressione che le causava quel luogo, disumano e a lei tanto estraneo.
20/09/2009 - Il Corriere Nazionale
Chissà se il mondo del lavoro interinale è così veramente. Se è vero che un Presidente vuole soltanto dipendenti sottomessi, e se quando entra un albanese a minacciarti in ufficio per avere un lavoro, puoi darti la forza di dirgli che non ce n’è. Oppure dirgli di ammazzarti subito e per favore chè lo faccia, altrimenti ti senti svenire. Giorgio Morale ha scritto un romanzo acido, capace di sferrare un colpo basso sotto la cinta dei pantaloni. Ha scritto con uno stile libero (si può dire così?), senza troppi giri di parole per dire come stanno le cose dentro quelle associazioni senza scopo di lucro che fanno il denaro con i finanziamenti. E si alimentano un po’ delle disgrazie altrui. Ha scritto un libro dove la disperazione si cerca di normalizzarla. Come ci ha insegnato Alberto Moravia in 1934, dove il concetto della disperazione divenne uno strumento per vivere solo a costo di poterla far diventare come il respiro. Ce l’hai addosso ma non ti accorgi. Così Morale ha inventato un romanzo che inneggia alla disperazione ma non lo sai. Ha scritto pagine di vita quotidiana, quella dove sbarcare il lunario è difficile, anzi di più. Ma si fa. Con mille nevrosi, tic, idiosincrasie. Le puttane albanesi diventano uno spaccato della realtà di oggi, ed un mezzo per capire anche certi uomini. Quelli primitivi, senza pelle sentimentale neanche, che le sfruttano come giocattoli di pezza da usare e scartare e poi vedere quanti soldi riesci a scucirne. E quelli che possono anche innamorarsene.
27/09/2009 – Transito senza catene
L’ethos di un mondo possibile, di Giovanni Nuscis
Non vi è dubbio: dove vi è denaro, facile o da rendere tale con qualsiasi mezzo, lì accorrono furbi, faccendieri e malavitosi, singoli o associati in sodalizi storici o estemporanei, in coppola o in gessato. Ed è solo questione di stile, di entrature, di contesti propizi. Ecco allora che anche la necessità di assistenza e di lavoro di un extracomunitario si fa “risorsa” preziosa, come si racconta in questo romanzo; ed ecco come la cattiva coscienza collettiva si alleggerisce, elargendo cospicui finanziamenti pubblici per una “buona causa”, perpetua nel contempo l’antica prassi clientelare elargitiva di favori e di denaro ad amici e servi; nel romanzo, questo avviene attraverso un’associazione di volontariato che si occupa del collocamento degli extracomunitari, gestita da un direttore intrallazzone e narcisista supportato da una vicepresidente factotum; e da una schiera di volontari sfruttati e malpagati costretti, per giunta, a sorbire le quotidiane vanterie e miserie del capo, quintessenza delle italiche “virtù”; e della faziosità, dei capricci e delle perfidie della bulimica vicecapo. Il romanzo si cala perfettamente nel nostro tempo, nella Milano “non più da bere” ma da suggere e sbocconcellare accortamente, con nuovi stili, nel suo corpo sociale ed urbano in continua e rapida trasformazione; una metropoli, al pari delle altre, fluida e spesso invisibile persino a sé stessa, arcipelago policromo di microcosmi più o meno interagenti. Della piccola comunità che ruota intorno all’associazione, l’autore delinea caratteri con pregi, difetti e contraddizioni, con occhio puntuto e obiettivo; dalla rassicurante superficie dei discorsi e delle azioni egli fa spuntare ed affiorare le magagne retrostanti e sottostanti, come quando parla del collegio dove ha studiato Teresa, una delle volontarie del Centro, delle ipocrisie dei licenziosi gestori e della sua stessa famiglia, preoccupata più dell’immagine pubblica che del bene della figlia.
Quadri precisi e sintomatici di un insieme complesso e indicibile – attraverso una mimesi selettiva ed espressiva della realtà che si rappresenta – troviamo dunque in questo lavoro dalla scrittura pulita e precisa, dall’ironia mai dimentica dell’ethos di un mondo possibile e auspicabile.
30/09/2009 - Compitu re vivi
Ridono ancora gli italiani?, di Sebastiano Aglieco
“Oggi ho aperto gli occhi e l’ho vista: la neve. Scende verticale, tirata giù dal suo peso, o dall’amore per la terra”.
Sono parole che seguono un parto, dopo la nascita non prospettata, di una nuova vita, da imparare ad amare come compito e pegno di riscatto. Un raro passaggio lirico, nel procedere di una storia costruita con maestria, dando peso a quello che una volta si chiamava “il mestiere del saper scrivere”, del saper mettere le parole al posto giusto, come un oggetto in un punto preciso della casa. E’ pieno di nomi questo libro, concentrato e appuntito, senza sbavature: “Un Presidente a cui danno tutte le presidenze, un Centro di volontariato che fa i soldi con gli sfigati, amministratori democraticamente eletti che in ufficio fanno le parole crociate, mentre negli aperitivi si rincorre l’invocazione “Borsa” Borsa!”. Sullo sfondo una Milano non più da bere, con il suo carico di umanità sconosciuta e con gli intrecci tra le stanze della politica e una Compagnia che ha sbaragliato la concorrenza nel campo dell’assistenza. In primo piano due madri, una albanese e una italiana; una figlia che viene uccisa e un figlio che nasce” (quarta di copertina)
A dire della maestria di Giorgio Morale, ci aspetteremmo che questa morte fosse narrata alla fine, come colpo di teatro, sublimazione per lo spettatore; e invece avviene quasi subito, a dirci che questo è un romanzo di microstorie, di storie parallele, che poi si intrecciano e nelle quali, più che lo svolgimento, si dà peso al ritratto, alla definizione di un carattere, di un moto del cuore.
E, certo, Giorgio Morale parla di situazioni, ambienti che conosce bene, che riescono a darci il clima di sofferenza di una piccola Italia che si barcamena cercando di non affondare. Lavoro nero, sempre e comunque; furbizie dei piccoli e dei grandi potenti; signorilità nel dolore, meschinerie nelle relazioni. Sogni, forse, nessuno.
Ed è questo il dato che più colpisce: Sogna – è costretta, deve – questa nuova umanità di extracomunitari, di prostitute schiave da redimere, di uomini allo sbando