Giorgio Morale, Paulu Piulu

01-02-2006

Paulu Piulu alla ricerca dell’infanzia, di Giuseppe Lupo


Con Paulu Piulu (Manni, Lecce 2005) romanzo dallo stile talmente ilare e leggero da apparire il resoconto di un poeta, Giorgio Morale (siracusano trapiantato a Milano) celebra l’infanzia come stagione felice, a cui ritornare in segno di rispetto e con un atteggiamento di estasi.
Si può dire quasi che il libro sia una sorta di recherche in un mondo ormai inesistente, ma che continua a lanciare messaggi all’io narrante: un mondo a colori, da dove giungono gli echi ancestrali di indovinelli, filastrocche, proverbi (perfino il titolo è desunto da uno di essi: “Paulu piulu caccarazzu/s’infilau jntra n’ cannizzu,/si jinciu ri privulazzu/Paulu piulu caccarazzu”).
Per attraversare questa vichiana età dei miti l’autore sceglie l’archetipo del lamento (“piulu” in dialetto siracusano significa “pigolare”, “lamentarsi”) e come genere quello del romanzo di formazione: la storia di un bimbo che scopre il mondo attraverso i cinque organi di senso (c’è una stagione degli odori, alla fine della quale riapre la stagione dei suoni, che a sua volta cede il passo alla stagione del gusto e poi a quella del tatto) e facendosi accompagnare dai genitori e dai nonni, che assurgono al ruolo di divinità pagane o magno-greche.
Alla dimensione di conflitto generazionale che tragicamente inaugura il Novecento come il secolo dei figli schiaffeggiati dai padri (basti osservare il celebre passo della Coscienza di Zeno in cui si descrivono gli attimi immediatamente precedenti la morte del padre di Zeno Cosini), qui prevale una situazione di dialogo: l’io narrante diventa uomo non in contrasto con il padre, semmai proponendosi in continuità con lui, nonostante i processi di emigrazione costringano la sua famiglia a dividersi, consentendo al figlio di rimanere l’unico uomo di casa.
Non è casuale, infatti, che il libro si apra con un capitolo intitolato “Il padre” e che nelle ultime pagine il protagonista raggiunga il padre in Germania, annullando i lunghi anni di separazione.
Il Nord Europa, infatti, è la “terra promessa” dei padri, allo stesso modo in cui gli Stati Uniti erano stati considerati l’eldorado dei nonni (“l’America fu una cometa dalla coda luminosa” scrive a un certo punto l’io narrante).
E proprio intorno al tema dell’emigrazione, che non viene vissuta quale condanna della modernità ma come esperienza conoscitiva, il romanzo di Morale interseca un segmento di felice vitalità espressiva.
Da storia individuale si eleva a storia collettiva, assumendo – come era giusto che fosse – i tratti di un racconto sociologico e dichiara apertamente la sua identità di “struttura aperta”: il protagonista abbandona il Sud senza ritornarvi.
E’ un Ulisse, dunque, che ha smarrito Itaca.