Giorgio Morale, Paulu Piulu

03-07-2006
Un “cantico delle creature”  in una Sicilia bifronte, di Ugo Ronfani
 
Paulu Piulu è un romanzo di Giorgio Morale (Manni 2005) che mi ha conquistato per la sua preziosa innocenza, perciò considero un dovere e un piacere segnalare questo felice esordio letterario, in mezzo alla paccottiglia di tanti libri superflui che impone il marketing editoriale.
Paulu Piulu è un libro autobiografico ambientato ad Avola, in Sicilia, presso la costa ionica, ai piedi dei monti Iblei, dopo il secondo conflitto mondiale. Qui vive Paolo, il piccolo protagonista. La sua è un’infanzia povera, quale può essere quella del figlio di un operaio che andrà poi a lavorare in Germania e che vive in un seminterrato attiguo alla fabbrica, la quale malgrado le fatiche non sfama la famiglia; ma attraversa un’infanzia ricca dei doni inestimabili di una vita a contatto con la natura, nutrita di semplici e solidi affetti, fra i parenti e nel mondo di prima della conversione della società agricola degli anni Cinquanta alla società del cosiddetto benessere economico degli anni Sessanta. E siccome questa “ricerca dell’infanzia perduta” (come potremmo dire, parafrasando Proust) si nutre di una straordinaria capacità, da parte di Morale, di ricomporre il puzzle delle sensazioni, degli impulsi e dei ricordi, negli spazi – strade, case, campagne – dov’era annidata la memoria dei suoi primi anni di vita, ne risulta alla fine non soltanto un’opera di reinvenzione del passato nella chiave di un realismo magico, ma da un lato una sorta di “cantico delle creature” in una Sicilia bifronte tra passato e futuro, e dall’alta un documento antropologico sul Mezzogiorno d’Italia, su come esso cambiava nella seconda metà del Novecento.
Un libro, dunque, nel solco della storia del nostro Mezzogiorno che ha avuto i suoi riferimenti letterari, per fare qualche nome, in Verga e negli scrittori del realismo sociale come Jovine nel romanzo o in poesia Scotellaro, e nei saggisti dell’impegno meridionalista come Danilo Dolci e Compagna nel secondo dopoguerra. Aggiungendo, ovviamente, Vittorini, e Quasimodo, e Consolo. Anche se il romanzo di Morale, pur se inserito nel quadro della letteratura meridionalista del Novecento, ha questa particolarità: che rappresenta una Sicilia vista con gli occhi di un bambino, e le problematiche socio-economiche sono, naturalmente, soltanto sullo sfondo. Il che, però, poco o nulla toglie all’autenticità del quadro della società siciliana degli anni Sessanta: perché Morale sa ricordarla – ed è uno dei pregi del libro – come l’aveva scoperta nella sua prima infanzia.
Il romanzo è introdotto da una massima di Marina Cvetaeva, che afferma che nell’infanzia si trovano tutte le verità della vita. Morale ne è convinto; ritrova con scrupolosa oggettività ciò che il piccolo Paolo vede, sente, percepisce e comprende nel suo microcosmo infantile, badando a non intervenire nei suoi modi di inventare il mondo; e il risultato è davvero suggestivo, per spontaneità e chiarezza.
Ho trovato altrettanta verità nel descrivere il rapporto tra l’infanzia e il mondo adulto, come in quel classico della letteratura sull’infanzia che è Pel di carota di Jules Renard, ma con una differenza sostanziale. Il piccolo Lepic di Jules Renard è un bambino che soffre per il disamore che lo circonda, mentre il piccolo Paolo di Morale, pur nella povertà in cui vive e anche se sono tanti i “perché” ai quali non sa rispondere, e i tremori e le paure del suo quotidiano apprendistato alla vita, conserva e anzi rafforza, crescendo, la fiducia nel mondo e negli adulti; e sa percepire la  bellezza e la ricchezza dei doni con cui la natura gli intona ogni giorno l’ “inno alla gioia” del vivere. Tanto che le sue giornate nello scantinato che è la casa provvisoria dei suoi, gli affanni dei genitori in guerra con la povertà, le fatiche del padre, operaio sfruttato, gli scoramenti della madre e la lontananza dei parenti facoltosi; e il tormentoso miraggio di una emigrazione in America di cui sente ragionare in casa, e che si trasformerà per il padre in una cieca avventura di lavoro in Germania, lontano dalla famiglia; e la malattia che coglie la madre con il marito lontano; e nelle ultime pagine il congedo dalla fantastica libertà dei primi anni di vita con l’ingresso nella scuola elementare, dove il sillabario e la bacchetta della maestra scandiscono i ritmi di una nuova disciplina; tutto questo – che alimenta una cinquantina di agili capitoli – si configura alla fine come un intreccio di cronache famigliari e di fantasie fiabesche, di fatti reali e di emozioni a volte imperscrutabili, di domande senza risposta e di illuminazioni.
La scrittura di Morale aderisce, per semplicità e per chiarezza, alla visione delle cose di Paolo; e la sua pagina sa tenersi a mezza strada fra realtà e favola. Sentite come è nato Paolo, e come si muove nei primissimi suoi ricordi come in un liquido amniotico:
“Paolo ha una bussola per la memoria dell’infanzia: sono gli spazi in cui ha vissuto, le case e le strade; ognuno reca impressa una data. Una porta, una finestra, una lampadina su cui si sono posati lungamente i suoi sguardi sono segnavia – e quegli occhi gli permettono di vedere ancora. Quasi quella primissima infanzia giacesse in fondo a un oceano, in essa agevolmente Paolo s’immerge, come un palombaro, per trarne fuori inattesi reperti.
Paolo nacque in un cortile. Alla sua nascita, spiritello mobile, svolazzava nei cieli della stanza, sfiorando le pareti, scendendo a sorvolare il letto grande, la culla dove c’era il corpo piccolo protetto da un velo, i mobili con i confetti offerti ai visitatori. Nacque alle undici di mattina: silenzio, voci, fruscii, frastuoni, la penombra del velo che, nei giorni seguenti, volentieri avrebbe strappato. Altre volte avrebbe voluto alzarsi in volo, ma non c’è più riuscito”.
Lo stile è questo, sempre attento a non tradire la “verità dell’infanzia”. Allineando frammenti minimi di questa infanzia – che non ha nulla di straordinario o di magico se non il fatto che compone la storia di una nascita al mondo: quella di ognuno di noi, rivissuta da un adulto che non vuole, assolutamente, intorbidire l’acqua chiara dei ricordi. Morale rivede se stesso mentre gioca a costruire il mondo. E’ come se ogni pagina lo sorprendesse a erigere la sua piccola cattedrale, come fa ogni bambino giocando con i tasselli colorati del Lego o con le sbarrette di metallo di un meccano: mai osando intervenire, da adulto, per dirigere, correggere o alterare il suo gioco, attento a non disturbare il personaggio in questo lavoro di piccolo architetto della propria esistenza.
E la costruzione cresce; rischia di franare qualche volta come un fragile castello di carte per i tanti misteri della vita; ma alla fine resiste. Basta a Paolo guardare, prima di addormentarsi, la parete di carta di giornali con cui, nella povera casa, il padre ha alzato un muro divisorio, per fantasticare come se nella stanza ci fosse un cantastorie. Gli basta ascoltare il frinio di una cicala che gli ha catturato il padre per capire che il sole, negli esseri viventi, si tramuta in canto. O che la canzone nervosa, arrabbiata, della mamma quando fa i mestieri di casa vuole nascondere lo smarrimento per il marito lontano in Germania. Vede uno scarafaggio che striscia nella povera cucina, odia i topi che si muovono sotto le tegole del tetto, ma poi gli basta guardare in alto, vedere il cielo – con la luna che una filastrocca imparata dal padre paragona a un’arancia – e s’immagina che gli angeli giochino a correre fra le stelle; e così può scacciare la paura e addormentarsi. Una spedizione con il padre in cerca di lumache si trasforma in un’avventura fantastica, così come un pomeriggio al mare con lo zio Saro, a smarrirsi guardando la linea lontana in cui terra e acqua si congiungono nella luce, lo porta a immaginare i mostri negli abissi.
Ci sono poi, in Paulu Piulu, le voci e i rumori della città di Avola, le domeniche di festa, la cacofonia famigliare dei pomeriggi e delle serate nelle case dei parenti; ecco la figura gigantesca del nonno carrettiere dal ventre grande come il vasto mondo che percorre; la figura minuta della nonna sempre in attività come una trottola; e il loro modo di litigare su chi dei due dovrà morire prima, che è il loro modo di scambiarsi tenerezze. Nella commedia umana del piccolo Paolo c’è la “bambina brava” che lo porta ad acchiappare le cavallette e con cui morde spicchi di limone: quasi il presagio di un primo innamoramento, come una Yvonne de Galais alla festa del castello del Grande Meaulnes di Alain Fournier; c’è la suora dell’asilo che cerca di sostituire, senza riuscirci, la mamma malata in ospedale; ci sono gli amici nella nuova casa fra i cantieri di periferia, e l’altro Paolo, che arranca all’uscita della scuola, per i postumi della poliomelite.
Ma c’è soprattutto, evocata dal libro, la grande sinfonia delle stagioni: e qui mi permetto di fare il nome di un grande del Novecento purtroppo quasi dimenticato, il marchigiano Fabio Tombari, che in Tutta Frusaglia ha come Morale il dono di fare sentire in chi lo legge la felicità di vivere a contatto e in armonia con la natura. Basta al piccolo Paolo incontrare i segni della primavera nel minuscolo orto di casa, fra le insalate tenere e le nuvole in fuga; sentire che il sole d’estate induce la madre a cantare; farsi cullare dalle lunghe piogge d’autunno, quando le mosche sembrano addormentarsi in volo, e d’inverno consumare i giorni nel raccoglimento della cucina dove la pentola bolle, crepita il fuoco e l’attesa delle stelle fredde conclude nella notte le corte giornate, basta questo sentimento del tempo, questo grande gioco fra la luce e le tenebre, e il giro della grande ruota che fa maturare il grano e porta i temporali, e il respiro della natura che si mescola al suo respiro, perché Paolo si senta il bambino più ricco e fortunato del mondo. Le pagine sulle stagioni, come le percepisce l’anima del bambino avida di sensazioni, sono fra le più belle del romanzo. La scrittura è di una virgiliana chiarezza. Morale ha saputo restituirci l’incanto della natura come premeva sulla sensibilità del suo piccolo protagonista.
Un altro pregio di questo libro è che ci aiuta grandemente a capire il mondo segreto dell’infanzia, la psicologia del bambino. Ed è un libro che ristabilisce, in un mondo turbato da tante incomprensioni, corretti e solidali rapporti fra adulti e giovani.