Giorgio Morale, Paulu Piulu

26-09-2005

Paulu, la memoria e l'esordio di Morale, di Giuseppe Condorelli 


Aggrappato alla memoria sua e di un’isola tanto magica quanto crudele e "matrigna", Paulu Piulu - romanzo d’esordio di Giorgio Morale che la prestigiosa Piero Manni di Lecce ha appena pubblicato nella collana “Pretesti” – snoda una narrazione ‘esemplare’ di formazione, scandita da una infanzia segnata da una dignitosa povertà ad Avola prima del grande salto nella Germania industrializzata degli anni ’70.
Di chiara matrice autobiografica – anche se nell’ottica della focalizzazione zero - la storia ripercorre, senza la retorica larmoyant e bovaristica di tanta letteratura regionalistica, le vicende in cui tanti siciliani possono riconoscersi: il lavoro alienante e agro nei campi del padre bracciante, una infanzia “dal margine”, del freddo e della fame, il mito (un po’ esotico) della terra promessa (America o Germania poco importa), la disillusione dell’impatto con la ‘civiltà’, la necessità delle radici.
Per orientarsi e spostarsi lungo questa “bildung” il giovane protagonista Paolo – che assume il ruolo del “piulu” (onomatopea del verso della gazza) – si fa voce, “lamento” appunto attraverso una intima corrispondenza col mondo arcaico che lo circonda – cavallo, la stalla, il mare, la pioggia, ape, erba, feste comandate (così come si intitolano i brevi capitoli che lo compongono) – e con quello crudele dall’altro della fabbrica, dell’indigenza, della città e de suoi rapporti disumanizzati.
Per orientarsi (anche nel suo presente di insegnante a Milano) Paulu-Giorgio utilizza la memoria come una bussola, si fa palombaro: non a caso l’inizio del romanzo è ricco di metafore marinare – che poi alludono a quella dell’esistenza come viaggio: “Come un’ancora Paolo invocava la mano che la madre tendeva da un letto all’altro. Paolo l’afferrava, facendo passare la sua attraverso le assicelle che formavano la sponda del lettino, incerto confine con il mare aperto, come il parapetto di una nave”.
Paulu Piulu è anche libro ‘solare’ in una accezione particolare, bufaliniana quasi, sospeso tra luce e lutto: se è vero che “l’estate illumina meglio i ricordi”, quella luce è anche in grado di mettere a nudo le ombre di una esistenza assai contrastata - città/mare; fabbrica/alienazione; partenza/fuga; orto/radici, una esistenza sostanzialmente connotata da una sorta di animismo magico, una dimensione a volte mitica in cui il protagonista è totalmente immerso: una compenetrazione nel mondo della natura e dei suoi esseri.
Grazie ad un registro linguistico ondulato e dolce, il romanzo dell’infanzia di Giorgio Morale è il romanzo della verità e l’epigrafe della Cvetaeva – La storia delle mie verità, ecco l’infanzia – ce ne restituisce tutto il senso: dalla dignitosa povertà, dalle trasgressioni, dall’amore per la lettura fino alla maturazione della coscienza, esplicitata da quel “desiderio d’altezza” che è voglia di mutamento e di trasformazione.
Anzi nella seconda sezione (La torta di sabbia) dopo i conflitti della prima, il romanzo sembra ritrovare in alcuni capitoli una deliziosa atmosfera retrò: se volessimo istituire un paragone cinematografico potremmo benissimo pensare a Les choristes di Barratier per quel suo modo discreto e spontaneo di maneggiare alcuni momenti fondanti dell’infanzia.
Lungo questo tragitto, lungo questa geografia che non è solo interiore ma reale e dolorosa, non si smarrisce però l’identità se non per farsi più forte, più radicata: nella figura (circolare) del padre che non certo a caso apre e chiude la vicenda – a quarant’anni di distanza - si avverte ancora la necessità dell’appartenenza, dell’identità e dei legami familiari, di una attrazione - alla Vittorini? – per quei luoghi che ormai Paolo esule nella moderna Milano continua a rivisitare: “I luoghi sembravano l’anima buona delle cose. In essi erano sedimentati gli affetti e le storie, svincolati dalla vicenda delle vicende umane. Ed essi li porgevano, puri, indifesi, disponibili.”
Ed è proprio questa purezza, questo humus quasi pascoliano del nido ma attraversato da “astratti furori” a rendere piacevole la mistica dell’infanzia di Paulu Piulu.