Giovanni Bernardini, I bruchi

01-11-2008

Storie di famiglia, fra sogno e realtà, di Valeria Nicoletti 

“Il nemico sta sempre dall’altra parte”, aveva detto lo zio un po’ scemo. Che stia parlando dei bruchi, allevati in gabbiette da uomini dalla faccia truce o ridotti in poltiglia dai piedi impazienti dei bambini? No, quelli te li porti dentro fino alla bara.
Ma poi cos’è questo minaccioso refrain, cosa sono questi bruchi? Un capro espiatorio, magari, tanto facile e indefinito da poterci riversare la colpa dei propri errori, il rimpianto agrodolce per il tempo che passa e le parole rimaste da dire. Oppure quella diversità che dà fastidio, colpevole sempre e comunque, di qualunque colore essa sia.
Giovanni Bernardini, uno degli ultimi grandi vecchi dei narratori salentini del Novecento e maestro per generazioni di studenti nei licei leccesi, pubblica con Manni questo singolare romanzo che mescola la realtà al sogno, ricavandone una storia che di storico non ha niente, una girandola di personaggi che, nati da un’unica “strappigna”, ovvero la stirpe, vivono “ognuno con la sua coerenza senza possibilità di deviare”, meglio del più tonico romanzo naturalista dell’800.
Sembra di rileggere alcune pagine di Lessico familiare, il delizioso libro della Ginzburg: anche qui, infatti, Bernardini porta in scena una famiglia che si racconta a più voci. Capitolo dopo capitolo, l’arte del lessico si affina ed è il linguaggio a caratterizzare i personaggi: quando fa la sua comparsa un Maestro, la lingua diventa aulica e ampollosa, quando lo scenario si apre sugli agresti declivi delle Poppe di Giunone, anche le parole si fanno bucoliche e “uditasi una musica di sampogna e vedevansi saltabellare teneri agnelli e capretti”. “Figlio di pipuntata”, questa l’unica imprecazione che si concede la mamma di Anselmo e ancora “Silòche, Scùmmari, Strùmmoli, Strovèri, Picùni”, suona come una filastrocca la serie di “bande irregolari” che firmano le pareti cittadine, contendendosi lo spazio urbano con lo zio.
La Storia, dal canto suo, non ruba spazio a questa pièce teatrale, tragicomica. A tratti surreale; si limita a suggerire le coordinate senza sovrapporsi alle memorie del nostro Anselmo, che si racconta dalla nascita all’epilogo, dando vita ad uno scenario onirico, tratteggiato tuttavia con ironia e sarcasmo, con una vena satirica che non risparmia il fanatismo dei militari, i ridicoli divieti di una dittatura condannata al fallimento, una xenofobia perenne più o meno velata.
“Nella vita bisogna sempre sapersi raccontare una favola”, che sia pure quella decadente del “ragazzo in fondo al mare immobile sorridente e lunare”, poetico epitaffio che lo zio un po’ scemo va scrivendo per la città, per consolarsi della cruda realtà o di quel nipote che, sopraffatto dalla “guerra guerreggiata” e dalla follia del branco, ha dimenticato, nonostante le raccomandazioni, la loro favola personale.
“Ricordati del ragazzo in fondo al mare” era il monito dello zio un po’ scemo ed è proprio per non rischiare di dimenticarselo che, appena chiuso il libro, viene d’istinto riaprirlo per rileggere le parole di Anselmo e sentirsi di nuovo raccontare dalla mamma che barattava un paio di pantaloni per un sacco di farina di granturco, di tutta quella “gente a cui fa notte innanzi sera” tanto deprecata dal nonno che non trovava sollievo se non tra i libri, delle “gorgonie stelle” che ornavano il cielo “nelle sere chiare di luna”, dei bruchi, qualunque cosa essi siano.