La naturale leggerezza del poeta, di Antonio Errico
Chiedo scusa al lettore e all’autore se per queste righe su Nel mistero del tempo, il libro poetico che Giovanni Bernardini pubblica con Piero Manni, comincio citando la dedica personale che dice: “sarà questa la mia ultima caccia?”, con un riferimento al mio piccolo romanzo sull’ultima caccia di Federico II, dello stesso editore, ma soprattutto con un’allusione alla caccia del tempo sull’uomo, dell’uomo sul tempo.
Ma il motivo della citazione consiste nel rilevare come –al di là dell’umile riferimento– la dimensione poetica profonda e implicita di Bernardini sia la stessa di ogni grande scrittore. Perché ogni grande scrittore –e grande vuol dire colui che crede nelle parole tanto quanto crede nella vita dentro i giorni (o di più?)– pensa sempre –sospetta, forse segretamente– che ogni libro (anzi: ogni pagina, ogni parola) siano sempre l’ultimo libro, l’ultima pagina, l’ultima parola, limiti definitivi, invalicabili, assoluti. E allora ogni grande scrittore pensa che in ogni pagina, in ogni parola, sia indispensabile, inevitabile, metterci tutta la vita, tutta l’esperienza, tutta la possibilità e l’impossibilità dell’esistere, ogni felicità e ogni dolore, tutte le illusioni e le delusioni, le stanchezze e i vigori, tutti i sogni e le occasioni, le sconfitte e le vittorie, le conquiste e le rinunce, le coerenze e le contraddizioni.
Pensa che debba mettercele così, nelle pagine, nelle parole, come sono venute, ordinate o confuse, attese o improvvise. Così fa Giovanni Bernardini, in questo libro. Fa come ogni grande scrittore, indipendentemente dall’età che conta nel tempo in cui scrive.
Bernardini è della classe ’23. È –anche– per questo motivo che provo per lui un grande affetto. Come provavo un grande affetto per Aldo De Jaco, che era del ’23. mio padre era del ’23.
In questo libro di Bernardini trovo una delle più belle poesie che abbia mai letto (e qualcuna l’ho letta). S’intitola Sulla soglia: una lettera al padre; un tentativo innocente di cancellare la distanza tra i luoghi dell’eterno; un atto di consegna fiduciosa al mistero dell’oltre, all’enigma dell’altrove.
Poi trovo una poesia dedicata al grande amico Salvatore Toma, il ricordo della neve di quel marzo dell’ottantasette.
Dice Giovanni Invitto nella bella e affettuosa postfazione, che questo libro è il canzoniere di una vita, “uno specchio nel quale il poeta si guarda non per trarre consuntivi ma per interpretare il mistero del tempo”.
Ha fatto bene davvero Giovanni Bernardini ad affidare ad un filosofo come Invitto l’interpretazione del suo mistero del tempo: che è nella memoria, nel sogno, nella ferita del giorno che passa impietoso sul cuore, sulle ossa, sul volto; è nel rimpianto di tutto quello che è andato perduto, degli amici che a un certo punto hanno salutato; è nel disappunto di tutto quello che si sarebbe potuto fare e non s’è fatto, nella nostalgia di quello che si è compiuto, nella speranza per quello che resta da compiere.
«Si perde così / nel mistero del tempo / l’umana esistenza», scrive: versi che stringono le teorie di Agostino e le ultime parole di Albert Einstein, il Qohèlet e le concrete e brucianti filosofie di chiunque si soffermi a pensare a se stesso.
Poi, in fondo e dentro l’umana esistenza, e forse anche dopo (perché questa è l’inconfessata aspirazione di chiunque si ostini a martoriare fogli), c’è la scrittura: a volte nella forma di una prosa, a volte l’andare frequentemente a capo della poesia, anche se –inevitabilmente– restano pagine bianche, anche se si affievolisce la volontà di costruire ponti sulle parole per andare incontro agli altri (o solo a qualcuno), anche se si rimane da soli con se stessi e il rumore del mondo diventa nient’altro che uno sciabordio senza significato.
In fondo e dentro resta la scrittura, come resoconto e progetto, come specchio e cruna dell’ago, come annotazione al margine del tempo, come consolazione per se stesso, lascito di memoria, intimo testamento, come vizio incallito, come sollievo e tormento.
Questo, per Bernardini, è la scrittura, adesso; questo è diventata con lo stratificarsi degli anni: un gesto naturale come uno sguardo, un movimento delle mani, un battito di cuore, un soprassalto del pensiero, un trasalimento improvviso, un confronto sereno, un sonno quieto, l’ansia di un’insonnia, il bisbiglio di una preghiera. Una fede umana. Troppo umana. E, per questo, fragile e poderosa, innocente e assoluta.