Giovanni Bernardini, Nel mistero del tempo

27-12-2005

Il racconto cosciente del tempo che straripa, di Gerardo Trisolino


Giovanni Bernardini è il più classico e aristocratico dei poeti salentini contemporanei. I suoi versi escono dalla fucina di una formazione classica divenuta educazione alla classicità. Anche quando la cronaca dei giorni irrompe in essi, anche quando la più prosaica quotidianità dei nostri tempi li plasma e li fa respirare dolcemente e fortemente, a testimoniare che Bernardini è un uomo coraggioso e testimone del nostro tempo.
Quando si parla di classicismo in lui non si vuole solo alludere a  un’ascendenza latina (si pensi alle variazioni catulliane), ma anche a quello novecentesco: dai crepuscolari a Ungaretti, da Saba a Quasimodo, da Cardarelli a Montale, da Bodini a Vittore Fiore.
È un classicismo che si storicizza, che assorbe gli umori delle epoche che il poeta ha attraversato e ha testimoniato, conservando intatti l’eleganza del verso, l’equilibrio della parola, la compostezza formale.
Pochi poeti e narratori (anche tra quelli che il Salento ha maternamente adottato come lui, pescarese di origine), hanno saputo testimoniare le metamorfosi di una “provincia difficile”, i mali che sono dentro di noi, le ansie di mutamento, la struggente e amara bellezza del Salento mitico coniugata con l’amore e gli affetti familiari e con la curvatura delle stagioni dell’esistenza. Un verso calibrato, quello di Bernardini, ammorbidito dal filtro di una civiltà letteraria raffinata e colta anche quando vibra di ironia e di risentimenti, di denuncia e di disarmo contro il declinante “hinc et nunc”.
Una poesia che ha la forza di stendere un velo di rasserenante plasticità anche quando irta e caustica è la materia, corrosiva e incandescente la delusione storica ed esistenziale.
Se Vittore Fiore cantava che “non abbellimmo di virtù / il passato, ma affondammo il bisturi nella nostra terra dolente”, altrettanto scrive Bernardini in una poesia di quest’ultima plaquette: “Non ho usato linguaggi bizantini”. Dalla consapevolezza storica di vivere nella terra di “compare brigante” o di quella dell’“imminente inverno” della propria esistenza, egli ha saputo ricavare materia di incanto e disincanto, illusioni e delusioni, resa reattività.
Anche quest’ultimo Bernardini di Nel mistero del tempo, appena uscito con l’editore Piero Manni (pp. 102, euro 11,00) con una partecipata postfazione di Giovanni Invitto, si ha la conferma di un itinerario coeso e coerente, limpido e ombroso, solare e obnubilato, estivo e invernale, primaverile e autunnale, intimo e sociale, solitario e corale.
La coscienza “del tempo che straripa” (il poeta è nato nel ’23), diremmo quasi l’apprensione d’essere giunto ai tempi supplementari, non è ancora del tutto quella della resa definitiva. È semmai quella del conflitto permanente tra il passato e il futuro, tra l’ideale e il reale, tra illusioni giovanili e bilanci esistenziali presenti: “Sei rosa fresca aulentissima / che splende pur al gelo dell’inverno”. Ma Bernardini rimane un poeta autentico che “sa tessere ancora la ragnatela / delle illusioni / a cui aggrapparsi e oscillare / trapezista sospeso sull’abisso”.
Ha ragione Invitto quando scrive che, nonostante tutto, non di un addio si tratta, ma di un commiato, diremmo di un elegiaco saluto, di un commovente arrivederci, se è vero –come scrive il poeta– che “ogni volta nel commiato qualcosa rimane / di non detto, quasi un sospiro represso. / Pur se dentro spunta il seme della pena, / forse così è più bello: lasciare tutto in sospeso, / come avere tempi lunghissimi davanti”.
Ci piace immaginarlo così il nostro affettuoso e prezioso poeta Bernardini; mentre anche per noi i giorni iniziano inesorabilmente a farsi più brevi e il calcolo dei dadi più non torna, per dirla con Montale.
Per noi egli rimarrà “un cavallo rosso di Chagall / a percorrere queste notti illuni”, piuttosto che un naufrago che sopravvive ai suoi giorni.
Non è forse vero che Bernardini in questo suo testamento ci lascia l’utopia piegata dall’impegno quotidiano, sociale e politico (è stato per diversi anni sindaco di Monteroni, a una manciata di chilometri da Lecce), verso i grandi valori umani e civili che la sua poesia, così apparentemente umile, ha saputo seminare nel corso di un quarto di secolo, dai lacaitiani “Segni del diluvio”?