Giovanni De Rose, Negli occhi di chi guarda

20-06-2008

Un baule pieno di storie, di Filippo La Porta

L’io narrante all’inizio di Negli occhi di chi guarda di Giovanni De Rose, Iennaro, ormai ottantenne, ci invita – come un antico storyteller – ad assettarci per ascoltare la storia della sua vita («Ho avuto due madri, tre nomi e quattro padri. Sono morto e sono rinato…»), che durerà l’intera notte. Un po’ come Ulisse di ritorno a Itaca che trascorre la notte mediterranea piena di stelle raccontando a Eumeo, guardiano dei porci, le sue vicende. Ma confesso un pregiudizio. De Rose è presidente dell’Arci bolognese, è un dirigente di notevoli talenti organizzativi. A me sembrava già abbastanza “creativo” nel suo mestiere. Gli italiani soffrono, ahinoi, di una specie di “febbre” del romanzo. Quanti onesti, bravi architetti, medici, avvocati, eccetera, prima o poi mi confessano con orgoglio di avere un romanzo nel cassetto, convinti che quello sia l’unico modo per dimostrare la propria creatività. Eppure nel caso di De Rose si tratta di una vocazione affabulatoria genuina. Il suo romanzo nasce da una motivazione reale e si traduce in un autentico scialo di narratività: quasi ogni pagina, pur seguendo la vicenda principale del protagonista, un guardiano di capre che nel 1909 dalla Calabria va in America e ci sta per otto anni, contiene un miniromanzo. Nelle sue 250 pagine trovate di tutto, come in un vecchio baule. L’epopea dell’emigrazione (noto di sfuggita che in Italia non abbiamo un solo romanzo dell’emigrazione a parte il racconto di De Amicis Dagli Appennini alle Ande), il gangster John Dillinger, Kit Carson, le lotte sindacali dei minatori, la guerra con il Messico, la febbre spagnola, e soprattutto le icone classiche del West: la puttana del saloon, il deserto con i serpenti a sonagli, i luoghi topici del genere (Tucson, Yuma, il “fiume rosso”…). Il libro potrebbe inscriversi nell’attuale ritorno all’epica della nostra narrativa (Wu Ming, Lucarelli, Genna, Fois), ma direi che se ne distingue per una sua “natura” più naif e per una totale assenza di vezzi stilistici. Lo stile è curato e a tratti anonimo. Ma è proprio l’eccesso debordante di storie contenuto nel libro ad aver bisogno di un “veicolo” espressivo agile, di una scrittura trasparente, umile. De Rose mescola alto e basso vorticosamente: Corman McCarthy e le strisce di Cocco Bill, John Ford e Tex Willer, la grande tradizione orale e la pubblicità (la notte nera «come la pece nel deserto», o anche «…sfidavano la polvere, la calura, gli indiani ostili, le insidie del deserto»). La sua non è però un’operazione postmoderna, ironica e citazionistica. Il romanzo si presenta come omaggio commosso, sincero al genere western (forse amato nell’infanzia) e alla memoria dei padri. Con una piccola trasgressione al codice del genere: la relazione omosessuale del protagonista con Francis.
Alla fine Iennaro dice di aver incontrato la poesia, di averla saputa riconoscere ovunque. E questa è esattamente l’essenza dell’epica: l’intera esistenza – pur con le sue miserie, i suoi lutti e il suo orrore – diventa nel racconto epico una meravigliosa avventura, l’avvincente traiettoria disegnata da un Grande progettista.