La penna, l’inchiostro, l’abito, di Salvatore Jemma
Attraverso la rete (Manni, Lecce 2012, pp. 120, con una postfazione di Roberto Roversi), si chiama l’ultima raccolta poetica di Giovanni Maurizi, un titolo che se ieri poteva indurre a pensare alla necessità di spezzare un intrico di sofferenza che cattura e costringe, oggi solletica soprattutto l’immagine di una estensione, di un viaggio - virtuale quanto si vuole. L’intento dell’autore, come appare chiaro alla lettura del libro, è quello di narrare (e far esprimere la propria parola) secondo la prima interpretazione, ma inevitabilmente si è spinti (e credo che, almeno in parte, anche la scrittura di Maurizi entri in questa duplice interpretazione) a mettere in gioco pure la seconda, una “Rete” attraversata da un viaggio senza nessun approdo certo, verso un’apertura sperata, cercata.
Un viaggio esperenziale e quindi solitamente doloroso, che buca il groviglio dei ricordi, delle vicende, dei collegamenti veri o presunti, reali o immaginati, delle concretezze, con versi asciutti, come è possibile leggere nella seguente poesia:
Nessun fremito giunge dal boschetto
oltre il piazzale e la luce ferale
del meriggio rimarca le distanze
precisa ogni dettaglio, non un ramo
che oscilli, e gli uccelli, la cicala
il vento sono muti e oltre la quiete
l’assoluta fissità del paesaggio
è una cappa che non concede tregua
ai sensi accolti nel solo ronzio
del silenzio, assente voce di dio.
Il viaggio che Maurizi intraprende è, al contrario dei suoi versi, sempre intriso, che si tratti di pioggia o di neve o, ancora, di pianto, e ricerca una consolazione che però non si trova (o che Maurizi non trova) da nessuna parte. Un’apparente tedio leopardiano pervade i suoi versi, dico apparente perché in realtà la natura in Leopardi, nella sua visione, urla il proprio dolore, mentre in Maurizi al contrario, vive come serrata dal gelo e dal buio, se non dalla disperante speranza frustrata:
Solo tu ed io vegliamo al vento gelido
della segregazione. Il magistrato
consulta le sue carte e dorme sonni
tranquilli, il caso Moro è un boccone
indigeribile per il suo stomaco
e lui vuole dormire sonni tranquilli.
La neve s’accumula in questo inverno
torpido, imbianca alta i tribunali
le prefetture, il Quirinale eminente
e tutti dormono sonni tranquilli -
carcerato mal vivo in un cunicolo
scavato negli ipogei dello stato,
trafitto da un’arma elettromagnetica
schiavitù per i decenni avvenire -
non posso dormire sonni tranquilli.
La poesia sopra trascritta, mi pare particolarmente rappresentativa di una condizione, non per caso è posta tra le prime ad aprire la sezione omonima del libro; lo è in parte per il confronto che pone tra una realtà esterna, che scorre in una sorta di spensierato intorpidimento, e l’eccesso di sentimento che invece trafigge l’autore; cosicché Maurizi prende su di sé quel troppo sentire, che equivale al troppo patire, quel «vento gelido» che cattura e imprigiona con il suo soffio; ma questa poesia, che intona un dialogo il quale attraversa l’intero libro e lo comprende, è propriamente il discorrere con un “altro” muto, il cui silenzio è di per sé raggelante. Eppure, raggelato qui non è il sentimento, che invece la poesia di Maurizi combina con una forte tensione, volta verso la passione descrittiva; il sentimento viene reso, direi infallibilmente, dal suono caratteristico che impone al ritmo dei suoi versi:
Quando i tigli sono spogli e quando
fioriscono io vengo circonfuso
dello stesso proposito di inizio
e non vedo il ciclo delle stagioni
coi loro ingannevoli lineamenti
perché l’amore è costante e la fiamma
in sé stringe e brucia ogni impurità
vengo a te identico e sempre nuovo -
in modo che la nostra vita sia
limitata dal nulla un solo istante.
Nel primo verso, la rimalmezzo consonante e la sospensione creata dalla spezzatura, si combinano in un gioco musicale rapido, come di corsa intrapresa e subito interrotta, quasi l’autore cercasse di rappresentarvi, anche per via di questo solo espediente, il proprio sentimento verso il mondo. Allora, la passione descrittiva diventa l’unico medium attraverso cui Maurizi entra veramente in relazione con la realtà dolorosa che lo attraversa, tanto da percepirla come «Una lamina sottile» che certamente spaventa, ma che alla fine dà vita. Poiché tutto il disperante viaggio porta infine alla sua poesia, racchiusa anche in questo libro; quel viaggio “attraversa una rete” però non la spezza, non può farlo, non lo deve; è con questa condizione che Maurizi sa di dover fare i conti, perché si tratta della sua penna, del suo inchiostro, dell’abito di carta che indossa, intriso di parole.