“L'essenzialità” di questi canti di Giovanni Maurizi è innanzitutto una tensione, un ordine nascosto dietro ogni elemento e ogni movenza che, dalla realtà, perviene alla sua pagina.
In questo senso emerge prepotentemente la natura di indagine che la poesia possiede e che spinge il suo autore a sondare soprattutto il mistero del dolore, come dice anche il nume tutelare del poeta, quel Roberto Roversi il quale afferma che “cala nei suoi versi le vicende di un conturbato dolore”.
Si tratta soprattutto di strappare all'astrazione le essenze, di toglier loro il nucleo veramente attivo del dolore, lo scivolamento nella vacuità: “Forse non sei esistita / per nessuno all'infuori di me, / e così darti un volto vuol dire/ interrogarmi sugli indizi/ del tuo passaggio”.
Ma il procedere di questa esplorazione appare perfettamente realistico e scevro da ogni forma di superstizione poetica (in questo non concordo con Roversi quando parla di salvezza attraverso la poesia): “Lo sguardo non dirada le profonde/ ombre”.
Così in Maurizi la voce poetante sembra assomigliare maggiormente a un'evocazione, a un chiamare alla vita attraverso il nominare direttamente persone e cose, la natura e la città (“Omar”).
Tutto ciò che esiste è sempre in bilico dall'evanescenza a cui si tenta di strappare il reale e l'improvvisa, imprevista epifania del senso.
Proprio gli oggetti partecipano con particolare vigore di questa ricerca. Poiché la morte li attraversa in virtù della loro immobilità (“oggetti attoniti in un rigore/ d'oltremondo”), la poesia tenta di dar loro vita attraverso l'invocazione. Può così capitare che una “minuscola bottiglia di vino” risalti con l'icasticità che si chiede al poeta, le cui immagini, in un certo senso, sono tutto ciò che deve effettivamente durare.