Giovanni Nuscis, In terza persona

18-11-2006
Un sé che si affaccia, di Antonio Strinna

C'è uno snodo naturale, una sorta di centralità del destino, uno snodo che sussiste dentro la dimensione della coscienza umana, proprio perchè di continuo chiama, simmetricamente, alla consapevolezza. Chiama, puntualmente, alla costruzione del proprio destino, se non alla sua precisa determinazione.
Destino salvifico o dannato, in qualche modo, sul filo di un orizzonte da conquistare e prima ancora nel respiro di un 'sé' che si affaccia sulla soglia di una possibilità e insieme di una risposta. Snodo del destino, in definitiva, traguardato da Giovanni Nuscis con la sua ultima opera In terza persona, pubblicato da Manni editori, che segue Il tempo invisibile, Book editore.
«Se oltre il cortile qualcosa vi attira,/ in quel minuto d'aria esplode/ un tempo infinito, in cui/ sfilate pantofole e vestaglia,/ perdersi sull'erba.» E questo appare ancora più vero se il cortile non è altro che la resa, taciuta o nascosta, la maschera del vuoto interiore, la deriva veleggiata da qualche compiaciuta nostalgia. E allora l'alternativa, il superamento è ascoltare, saper ascoltare, le tante voci che ci circondano, fra le quali c'è anche la nostra, in qualunque luogo del mondo. Potremmo scoprire, attenti in ogni fibra del corpo, che in fondo siamo noi «quel luogo che chiede ascolto».
Di qui il fuoco che alimenta intenzione e forza di un travagliato percorso, a partire dall'adolescenza, o piuttosto il fuoco di una vera e propria indagine -sospinta dalla verità-, tesa a scoprire e riscoprire menzogne e ipocrisie, dolori e misfatti, furbizie di ogni genere, laddove i poteri, piccoli e grandi, allora si dividevano lo Stato e anche gli indifesi, i poveri, gli ultimi. Ma ognuno, anche se giovane, aveva ed ha la sua responsabilità: «Noi guardavamo il cielo/ il volo in caduta dei giorni,/ tra lampi di generazioni. Ci contavamo, ogni tanto urlavamo/ ma indietro tornava la voce». Tutto qui? Bisogna ammetterlo: «Si poteva fare di meglio.../ sarebbe bastato volerlo...»
Per tutti c'era subito pronta l'anestesia: cinema e televisione, le protezioni politiche, il posto facile, la famiglia rifugio. E così è venuta anche la sicurezza, a buon prezzo. «Boogie woogie tra bulli e troiette,/ calze di seta e sottovesti;/ e un abito per tutti/ con tela di paracadute». Davvero una bella sicurezza, e fino a quando poteva durare? Ecco, la poesia di Giovanni Nuscis gioca soprattutto a svelare tutte le false sicurezze di cui è cosparso il cammino dell'uomo contemporaneo. E non bastano certo le regole e le leggi, non bastano a nascondere i meandri oscuri e le sabbie mobili in cui inconsapevoli talvolta ci si muove. In verità, non si salva neanche l'amore, ormai travisato in spettacolo: «Si fa l'amore come sopra un tetto/ o in cima a un albero; davanti a Dio/ e al grande occhio che ci osserva,/ gemito su gemito».
E il dubbio non risparmia neanche le parole del poeta. «E' vero che bruciarono i libri di Alessandria e non chi li scrisse». E tuttavia: «Tra il fumo colorato e i riflettori, / sono approdate adesso le parole:/ per rianimarsi, o per il colpo di grazia». E' la speranza la sola risposta, immancabile, per poi fare i conti con un viaggio che, dopo la sosta, non può che ricominciare. «Si poteva sperare/ in un approdo migliore,/ per le navi oscure qui attraccate,/ per chi ha affrontato il mare,/ dono più grande?» E il viaggio prosegue, infatti, come un destino ancora da definire. Comunque fecondo, se non si smette di credere in se stessi, se si possiede il senso della traversata, perchè la meta non può mancare né finire con chi la traversata l'ha iniziata. «Batteremo il tempo in altro petto.»
«Sulla carne viva del giorno/ come lame/ senza un grido, una smorfia:/ postumi a noi stessi/ di quel minuscolo nanosecondo/ che ride, di spalle.»
Il divenire è già nello sguardo, così le parole e le attese si concretizzano in ogni frammento e istante di vita, nella trama delle ragioni, sino a valicare, senza saperlo, anche noi stessi. Il destino, in qualche modo salvifico, diviene misteriosamente immortale. Il passato, proprio perchè irrisolto, è sempre nella dimensione di un tempo in divenire, indeterminato, perpetuato come voce che chiama alla redenzione, a coltivare un'ulteriore chance. E questo rimane crocevia della responsabilità individuale. «Sul dorso di anni molli come acqua/ calchiamo l'orma, prendiamo il largo./ Lontani ritrovandoci ogni volta.» E così ci accorgiamo che “Siamo volati via da noi e dai nostri morti”.
Nella corsa dentro il tempo, che sempre ci contiene e ci vede smarriti, ci figuriamo sommersi da confini e ostacoli; con le nostre paure, ci ostiniamo a guardare tutto con gli occhi del passato. Mentre sarebbe meglio considerare che: «Non vi è confine/ se qualcosa in noi rivuole spazi/ richiama voci.» E poco importa se non sono né la dolcezza né la bellezza a confortarci, a cullare i sogni, a rassicurarci come vorremmo. Ci basterebbe comprendere che cos'è ognuno di noi, quale preziosa realtà ci respira dentro: «Hai l'unicità di una canzone/ di cui rimane oscura una parola/ o sei la nota che ci stona dentro/ che ci consola stridendo». Anche quando vorremmo che la memoria fosse di solida pietra e invece ci tradisce a ogni ricordo, perchè tutto trasforma a ogni passo, niente lascia alla certezza, alle previsioni e ai calcoli. «Non del cammino fatto/ la memoria/ ma dell'andare infinito.»
E che cosa ci nutre, ci sostiene, infine, quale pane, quale frutto? Ricchezza, benessere, furbizia?«O, se si vuole, una fede banale,/ come pantaloni che proteggono/ dai graffi d'un sentiero frastagliato,/ così fitto da richiudersi alle spalle,/ dopo il passaggio, prima/ che si crei un varco/ davanti».
E' questa la bisaccia che ci rimane sulle spalle, riflette Giovanni Nuscis. La bisaccia che la sua voce -così sincera e inquieta- ha dischiuso in queste poesie, senza falso pudore, ma con il coraggio che segna lo stile di una poetica ormai ben definita e accreditata in qualità e misura. Voce che qui pare di un cantastorie, vero e insieme provocatorio, che scandisce il racconto di una vita, sua quanto di altri, come gocce capaci di dissetare chi davvero ha sete, chi ha ancora voglia di navigare malgrado il continuo naufragare. E tutto sgorga da un vigore profondo, quanto discreto, che è intenzione sotterranea di questi versi e, non di meno, anelito morale che agita le sorti del più grande e più alto dei destini, quello dell'uomo. Ecco perchè nella partitura di questi versi l'ironia è capace di giudizi taglienti, di ruvide condanne e insieme di fiduciose ripartenze; è ironia di rigore e di pietà, quanto più le conquiste e le sconfitte, gli amori e i disamori, fra intrecci di luce e di buio, qui si confrontano leali e incessanti. Così appare più vicino, illuminato e accessibile, il volto prospettico dell'uomo, nel suo rinnovato cammino. Che il poeta, un passo dopo l'altro, sceglie di condividere sino in fondo con chiunque si senta di percorrerlo.